Un gruppo di bambini lanciati verso l’autodistruzione. Ne ho conosciuti tanti cosi, e nessuno è arrivato ai trent’anni. Questi li ho incontrati una sera del mese scorso, a Ngong, la cittadina ai piedi delle omonime famose colline dove Karen Blixen ha vissuto e ambientato il suo romanzo “out of Africa”, alla periferia di Nairobi. Piovigginava e la notte si annunciava fredda, ma di notti in strada quei bambini ne avevano già passate tante.
Quella sera era diversa perché c’era con loro un adulto, buon pastore. Jack, educatore di strada, dopo averli inseguiti e fattiseli amici per mesi, li aveva radunati con una proposta: lasciate la vita di strada, venite con me e John, l’altro educatore, a Ndugu Ndogo. Vi daremo da mangiare ogni giorno, vi manderemo a scuola, potrete ripartire con una vita dignitosa, insieme, continuando ad aiutarvi come avete fatto per sopravvivere in strada. Noi vi accompagneremo, ma sarete voi a camminare.
In sè, la proposta non era poi cosi attraente. Quei bambini amano la libertà della vita di strada, la mancanza di disciplina, la possibilità di decidere ogni giorno cosa fare. Poi magari ogni tanto dopo aver racimolato qualche soldo, si concedono il lusso di ordinare un piatto di githeri (patate, chicchi di mais e fagioli bolliti insieme e insaporiti con erbe aromatiche) ad una delle donne che cucinano all’aperto, e si sdraino su un prato, al sole, immaginando che ci sia vicina la mamma che dice parole buone.
Ecco, questo è il punto, la cosa che manca di più, anche se nessuno lo vuol ammettere: Un adulto che ti vuol bene, che si interessa di te, che ti protegge e ti guida. Che quando c’è una difficoltà se ne fa carico, che ti aiuta a crescere.
Ma la cosa davvero importante è che ti voglia bene.
Mister Kariuki è il proprietario del ristorante in cui Jack ha organizzato questo “addio alla strada”. E’ uno stanzone con pareti e tetto fatti di lamiera ondulata, tenuti insieme da una intelaiatura di legno, arredata con panche, e con braciere di carbonella in un angolo. Kariuki, che mi fa pensare ad un pugile a fine carriera e poi mi conferma di esserlo, lo ha messo a disposizione per una cifra modestissima, poi, mentre Jack parla ai ragazzi, è andato nel “negozio” vicino a comperare quattro forme di pane e cinque litri di latte per questi ragazzi affamati. Gli saranno costati quanto i profitti di tre giorni, ma rifiuta i miei ringraziamenti con un gesto della mano bofonchiando “sono figli nostri”.
La notte passa in fretta, con canti, danze, storie della vita di strada. Il mattino i bambini improvvisano una partita di pallone, fanno un bagno veloce in un fosso che le piogge della notte hanno trasformato in torrente. “Per presentarci puliti a Ndugu Mdogo”, mi dice serio Paul, 12 anni, il capobanda che la sera prima era ubriaco o era intontito dalla benzina, o entrambe le cose, mentre si immerge nell’acqua fangosa, e poi via verso la nuova casa. Solo tredici hanno avuto il coraggio di fare il salto. Gli altri preferiscono l’opzione offerta da Jack di aspettare qualche settimana, purché poi prendano un decisione definitiva. “Devono lasciare la strada convinti di fare una scelta importante e irreversibile – sottolinea Jack – perché se fallissero e tornassero indietro, diventerebbe psicologicamente impossibile per loro incominciare un altro percorso di recupero.”
Nelle quattro settimane successive li ho visti crescere giorno dopo giorno. Quando li saluto prima di partire per Verona, sono normalissimi ragazzini felici. Ancora una volta tre pasti al giorno e l’attenzione, l’ascolto, l’affetto, che Jack e John sono sempre pronti ad offrire stanno compiendo il miracolo della rinascita di tredici bambini.