di Chiara Avezzano, dicembre 2016
Sono in Kenya da 9 mesi. A fine settembre abbiamo festeggiato i compleanni dei bambini di Kivuli: «Prendete questo giorno come un momento di verifica – ha detto un educatore – se nulla è cambiato rispetto all’anno scorso, c’è qualcosa che non va».
Per me ogni mese qui è un traguardo diverso. Ho scoperto cosa significa per i bimbi dei nostri centri ricevere la visita di un parente, rivedere la propria mamma ed essere fieri di lei, anche se è venuta con gli stessi vestiti che indossava per strada. Ho partecipato per la prima volta all’incontro tra famiglie e bimbi dei Rescue Centres, a Mother House, una giornata piena di meraviglia. Per la gioia dei più piccoli, per lo sforzo di alcuni genitori di esserci come possono. Per gli sguardi di chi faticava a trattenere l’emozione. Per i sorrisi discreti e quel bimbo che guarda di soppiatto la mamma tenendola per mano, come a cercare un segno qualunque di un legame da non perdere.
Ogni volta che il cancello si apre, i bimbi si voltano. Arriva una mamma con un figlio al seguito, una ragazza con una busta di vestiti in mano: entrano, salutano, stringono mani, cercano il sangue del loro sangue, si siedono composti.
Qui le emozioni sono così, controllate. Ma si sentono nell’aria, quasi le posso toccare.
Nella hall mi accolgono una trentina di donne e un paio di uomini, in silenzio a bere il tè: nonne, mamme, zie, zii dei bimbi e delle bimbe del centro che abbiamo aperto quest’anno a maggio, nella casa dove ogni cosa è cominciata più di vent’anni fa.
Jack conduce l’incontro, vuole sapere se hanno trovato i loro bimbi cambiati. Una zia prende la parola: «Ho qui mia nipote, figlia di mia sorella, i suoi genitori sono morti. Viveva con mia madre, tre anni fa non l’abbiamo più trovata. Mia mamma l’aveva data per morta, poi un giorno ho ricevuto una telefonata, era un’educatrice, mi disse solo “Abbiamo trovato tua nipote”, io non potevo crederci, sono rimasta in silenzio. Dopo un paio di settimane sono venuta qui ed era veramente lei, le ho fatto una foto col cellulare per dimostrare a mia madre che l’avevo trovata. È cambiata, non so che vita abbia vissuto ma ora sta bene, e si vede». È la volta di una nonna: non poteva credere che fosse suo nipote il ragazzino che l’ha accolta, educato, maturo, ordinato. La terza è una mamma, viene dal confine con la Tanzania, ha viaggiato tutta notte in bus per arrivare puntuale all’incontro, prenderà un altro bus notturno per tornare a casa quella sera stessa. È venuta a Nairobi per rivedere il figlio che aveva perduto, ora però anche uno dei figli più piccoli è scappato.
Alcune mamme vengono dalla strada. Hanno vestiti poveri e stracciati, odorano di colla, durante l’incontro poggiano la testa sul grande tavolo e dormono.
«Perché i vostri figli sono finiti in strada secondo voi?» – chiede Jack.Le spiegazioni arrivano: «Mia sorella è rimasta vedova, la casa era piccola, quando il ragazzo è cresciuto probabilmente non ne ha potuto più e se n’è andato». «Mio figlio ha iniziato con piccoli lavoretti, quando cominci a guadagnare cerchi sempre altri soldi, un giorno ha smesso di andare a scuola, è scappato in città e io l’ho perso di vista». «Mia figlia ha iniziato a frequentare cattive compagnie». «Mia nipote scappava da scuola per cercare soldi e comprare dolci, io le davo tutto, ma lei buttava l’uniforme e non andava a scuola, un giorno non è più tornata». Parlano sicuri, spiegano il loro punto di vista.
Boniface si alza, si mette al centro e ragiona a voce alta: «Il bambino che avete trovato oggi qui è lo stesso bambino che viveva a casa con voi. Gli educatori sono persone come voi. Come questi bambini. Quando voi avete fame, che fate? Se non avete i soldi per comprare da mangiare, dove andate? Tutti abbiamo bisogni, voi che bisogni avete?». Mangiare, vestire, avere un tetto sopra la testa. Poi arriva anche il bisogno di essere amato, di essere libero.
Così Boniface torna a spiegare: «Se questi bimbi sono finiti per strada, forse alcuni dei loro bisogni non erano soddisfatti, cosa dite? Sapete di cosa hanno bisogno prima di tutto? Del vostro amore. Qui l’hanno trovato, ecco perché sono diversi. Questi educatori li amano. Se uno non si fa la doccia, non si lava i vestiti, non mangia abbastanza, viene ripreso, seguito. Se a casa non vi preoccupavate, lui si sarà sicuramente sentito poco importante. Arrivando qui stamattina ho visto alcuni di loro che se ne stavano silenziosi vicino alla cisterna d’acqua. Quando mi sono avvicinato uno di loro mi ha detto con le lacrime agli occhi che sua madre non era ancora arrivata. Ecco, se a questi bambini non importasse nulla di voi, sarebbero stati lì seduti a piangere non vedendovi arrivare? Questi bambini hanno bisogno di voi e del vostro amore. Sapete come chiamano gli educatori? Mamma, papà, non maestri. Perché secondo voi?». Un coro di voci risponde: «Sentono la nostra mancanza». Tutti ascoltano. Alle tre donne arrivate in ritardo salgono le lacrime agli occhi, c’è emozione nell’aria. Boniface mi passa la parola, cerco il mio swahili migliore. Dico che la famiglia è una cosa importante: se sai da dove vieni puoi capire dove vuoi andare, e se oggi ci siamo ritrovati qui forse ci accomuna il bene che vogliamo a quei bambini.
C’è una strana energia nell’aria, la sensazione che potremmo uscire di lì e spaccare il mondo, c’è voglia di cambiamento e impegno, si sente che hanno capito che è successo qualcosa di sbagliato, che ora bisogna recuperare.
Usciamo in cortile, gli educatori invitano i bambini a fare la fila per portare il pranzo ai loro familiari. C’è aria di festa ma tutti mangiano composti. La più piccola del gruppo siede vicino alla sua mamma che viene dalla strada, sono la fotocopia l’una dell’altra. Mangia con il cucchiaio il riso e il cavolo nel suo piatto, poi si alza all’improvviso, la mamma prova a trattenerla, non capisce. La piccola è andata a lavarsi le mani, non può mangiare la carne con le mani sporche, torna al posto e con quel suo sorriso furbo afferra la carne e continua il pranzo sotto gli occhi increduli della mamma.
Rientriamo nella hall e, alla fine, entrano i veri protagonisti. Faticano a trattenersi, si sono preparati e devono mostrare alle famiglie quello che hanno imparato. Parte la musica, i bambini ballano fieri ed allegri, concentrati, buttano ogni tanto uno sguardo alla zia, alla mamma, alla nonna. Bernard e Jane si uniscono al gruppo, invitano i genitori ad alzarsi e partecipare ed è tutto un saltare, un muoversi a ritmo di musica con le mani alzate, è energia pura.