Un posto dove senti che puoi essere facilmente perdonato, se soltanto ti presenti a cuore aperto. Perdonato per quel poco di buono che avresti potuto fare e non hai fatto, per il tempo perduto e le occasioni sprecate, per le responsabilità sfuggite e le disponibilità negate. Ma lì, basta entrare e qualcuno ti prenderà per mano.
Avevo lungamente sentito parlare della Casa di Anita dai miei amici dell’associazione Amani, un gruppo di volontari che ha sede a Milano ma adesioni un po’ dappertutto in Italia e che finanzia e segue progetti umanitari in Kenya e sui monti Nuba del Sudan. A Nairobi, la capitale del Kenya, in particolare, Amani ha una casa per i bambini di strada, dove ragazzini senza famiglia né dimora trovano accoglienza, cibo e la possibilità di andare a scuola fino alla fine delle secondarie. È risaputo che il fenomeno dei bambini senza famiglia sta esplodendo in tutta l’Africa nera, in primo luogo a causa dell’ecatombe dei padri dovuta all’Aids. Non è azzardato affermare che nelle metropoli africane la famiglia — la quale ancor più che da noi era la cellula fondatrice della vita associata — non esiste più. Un numero crescente di nuclei famigliari, che aumenta di migliaia e migliaia ogni giorno, è ora composto di nonni e nipoti, con la generazione di mezzo inghiottita dalla malattia e dalla tomba.
Anziani e bambini, il più delle volte, non riescono a provvedere al fabbisogno del gruppo, a guadagnare quel che basta per mangiare. E il nucleo si scioglie, ognuno per sé a lottare per sopravvivere. Il diffondersi da noi delle adozioni a distanza risponde dunque a una tragedia collettiva le cui dimensioni stanno travolgendo ogni argine. Iniziative come la casa dei bambini di Amani, che si chiama Kivuli e si trova a Riruta, un quartiere periferico di Nairobi, sono gocce nel mare del bisogno, che tengono accesa una luce di speranza e indicano una via concreta allo slancio di solidarietà.
Quando già l’esperienza di Kivuli era avviata con successo da alcuni anni, è parso soltanto naturale a quelli di Amani mettere in piedi una iniziativa analoga, ma destinata alle bambine. La cosa era però più semplice a pensarsi che a farsi. Restituire alla vita bambine di 5, 6 o 7 anni, traumatizzate dalla strada, spesso dall’abbandono o dalla violenza familiare, cresciute in bande randage nella miseria degli sterminati slums di Nairobi, richiedeva un luogo e un modo speciale. Non bastava una casa, ci voleva una famiglia. Nacque così l’idea della Casa di Anita: trovare giovani coppie disposte a fare da genitori non soltanto ai propri figli naturali, ma anche a un certo numero di bambine — saranno otto per ogni coppia — selezionate in un centro di prima accoglienza. Il nome Anita viene da Anita Pavesi, mitica funzionaria del Tribunale dei Minori di Milano, protagonista di mille battaglie dalla parte dei bambini.
Trovato il nome, fu trovato anche il luogo. Un terreno ai piedi delle colline Ngong, una manciata di chilometri fuori Nairobi. Chi ha letto Karen Blixen ricorderà la sua evocazione di questo luogo dell’anima, il dolce incresparsi del paesaggio in un susseguirsi di alti e grandi dossi verdeggianti. Sono, secondo la leggenda, le nocche della mano di Dio, che qui s’appoggiò quando ebbe terminato la Creazione. È un posto di campagna, sempre ventilato e fresco anche nella stagione più secca, una zona di orti e campi di granoturco e famiglie di contadini o di pendolari. Mancavano solo i genitori adottivi, quando si fecero avanti per primi Michael e Jane, presto seguiti da un’altra coppia, Patrick e Leonida, e più tardi da Timothy e Jennifer. Le prime bambine arrivarono nel ‘99, le ultime l’anno seguente. Sono in tutto 24. Nel terreno c’è eventualmente posto per una quarta casetta: un’altra coppia, altre otto bambine.
Arrivai per la prima volta ad Anita’s Home alla fine di gennaio di quest’anno, con l’idea di trarne un reportage che solo adesso scrivo. Mi accolse Jane Wamunga, la moglie di Michael Ochieng, la prima «mamma» della Casa di Anita. Come ogni altro visitatore prima di me, fui colpito dalla sua straordinaria bellezza e dalla sua quieta grazia. Jane era una donna meravigliosa, per il suo aspetto e per la vita che si era scelta. Devo scrivere di lei all’imperfetto perché nel tempo trascorso tra le mie successive visite e la pubblicazione di questo articolo, nello scorso mese di aprile Jane Wamunga ebbe un improvviso malore e morì poche ore dopo il ricovero in ospedale, lasciando per sempre Mike, la sua figlia naturale Michelle e le otto figlie che aveva accolto.
Seduta nella sala dove le bambine si riuniscono a studiare, Jane mi spiegò come aveva preso con Mike la decisione di lanciarsi nell’avventura di Anita’s Home. A quell’epoca lei aveva appena 25 anni ed era incinta di Michelle. Sia lei che Mike rinunciarono al loro posto di lavoro — un posto di lavoro non è una cosa ovvia, a Nairobi — e si trasferirono a Ngong. Mi parlò a lungo dei suoi iniziali timori, che rivelavano la sua africanità: «È difficile alla mia età avere una famiglia così grande» (il problema non era il numero, era il rapporto tra l’età e il numero: a 40 anni, magari, avere otto figli sarebbe stata una cosa normale). Mi fece fare il giro della proprietà, mostrandomi le tre casette, le stanze con i letti a castello, i bagni, le sale da pranzo, il pozzo, il lavatoio, il campo di mais. Il taccuino si riempiva di appunti. Era un sabato mattina, non c’era scuola: vedevo le bambine giocare e fare il bucato, le sentivo vociare, le guardavo e me ne stavo a distanza.
Allora, mentre eravamo sulla soglia di casa, Jane Wamunga si rivolse a una delle sue figlie che se ne stava in disparte, seduta su un gradino e con lo sguardo a terra (seppi poi che quel giorno non si sentiva bene) e disse: «Sharon, accompagna l’ospite a vedere l’orto». Sharon si alzò e mi prese per mano. Mi portò a vedere l’orto, mi mostrò le carote, le patate e le cipolle, il sukuma wiki che è una verdura amarognola che non manca mai sulla mensa dei kenyani. Mi insegnò come si riconosce che una cipolla è matura anche se se ne sta sottoterra, ma soprattutto si attardò sui pomodori, perché i pomodori erano sua responsabilità. Mi spiegò infatti che ogni bambina accudiva e curava un particolare riquadro dell’orto, una particolare verdura. Fece tutto con dolcezza e pazienza, parlando a bassa voce e talora ripetendo e sempre tenendomi per mano, guidandomi da un angolo all’altro dell’orto e senza tralasciare alcun dettaglio, come se questo visitor avesse bisogno di essere portato passo passo se uno voleva sperare che capisse qualcosa.
Seppi poi da Jane che Sharon, una bambina che adesso ha undici anni, ha vissuto dai quattro ai sette anni della sua vita per le strade di un famoso slum di Nairobi, dormendo per terra e mangiando quello che trovava nei mucchi d’immondizia o che le tendeva la pubblica carità. Fu poi trovata dagli assistenti sociali di Rescue Dada, il centro di prima accoglienza che indica alle famiglie di Anita’s Home i casi individuali più bisognosi. Sharon giurava di avere una madre e una casa ma tutte le indicazioni che dette agli assistenti sociali non portarono da nessuna parte: non si trovò mai il luogo, né la persona.
Durante una delle mie visite successive andai a trovare le bambine a fine pomeriggio, mentre studiavano. Allora Sharon mi fece sedere al tavolino, mise da parte i suoi libri, prese un fumetto in lingua kiswahili e cominciò a farmi leggere, correggendo qui e là la mia incerta dizione. Giunta l’ora di cena dovemmo interrompere e le bambine discussero animatamente il mio rendimento. Sharon sentenziò che avevo una pronuncia degna di un vero africano.