Editoriale
Un’altra Africa
Anno XXXIV, n. 1 Maggio 2024 - di Chiara Avezzano
Vogliamo raccontarvi come è cambiato il nostro modo di lavorare con i bambini e le loro famiglie. Quando abbiamo cominciato, 30 anni fa, il nostro obiettivo era costruire case sicure per i bambini vulnerabili. Ora è far sì che non lascino la loro famiglia, e che genitori e figli crescano insieme.
Mama Winfrey ha sette figli ed un marito che le vuole bene. Vive a Kibera e ci parla con l’ultimo dei figlioletti in braccio, mentre l’altro di appena due anni gironzola per la baracca con un pollice in bocca. Mentre parliamo pian piano arrivano tutti gli altri, tranne la prima che frequenta la secondary school e passa la maggior parte del tempo a scuola. Uno dei figli ha in mano un pacchetto di mandazi per la merenda, il piccoletto di due anni afferra il pacco e comincia a distribuirne uno a testa, li fa a pezzi più piccoli appena si rende conto che non bastano per tutti. Intanto la madre ci racconta delle difficoltà che ha avuto quando è bruciata la loro casa e hanno perso tutto. Nello stesso periodo il marito ha avuto un incidente e non è riuscito più a lavorare per settimane, tutto sembrava andare male. In quel momento è entrato nelle loro vite il programma NICE, che ha appena compiuto un anno.
Gli operatori sociali di NICE hanno incontrato Winfrey perché aveva abbandonato la scuola e gironzolava per il quartiere. Dopo le dovute verifiche hanno inserito la madre nel programma di sostegno familiare, che prevede tra le altre cose un intervento particolare a cui abbiamo dato avvio il mese di ottobre scorso: il cash transfer. In sostanza si stipula un patto con la famiglia e si decide che ogni mese, per almeno sei mesi, riceveranno l’equivalente in scellini di circa 20 euro a fondo perduto, senza che questi soldi debbano essere spesi per qualcosa in particolare. L’unica cosa che devono assicurare è che il bambino al centro del programma frequenti la scuola con costanza. Per il resto, con questi 20 euro possono fare ciò che vogliono.
Diversi studi dicono che le famiglie, anche le più vulnerabili, quando ricevono questa modalità di aiuto non utilizzano mai quei soldi per spese sbagliate, ma di solito per mandare avanti la famiglia.
Chiediamo a mama Winfrey cosa abbia fatto del cash transfer di questi primi mesi. Ci racconta del cibo che ha acquistato il primo mese, delle rette scolastiche che è riuscita a pagare il secondo mese per una delle figlie, poi dei libri per l’altro e dell’acquisto di nuovi piatti per la casa. Allo stesso modo la mamma di Mackline, che ha vissuto per cinque anni alla Casa di Anita e ora vive di nuovo con la famiglia, ci racconta che con i primi soldi ha fatto la spesa senza dover attingere al piccolo guadagno che ricava preparando da mangiare per gli operai di un cantiere vicino; il secondo mese ha pagato la scuola del secondogenito; il terzo mese ha versato in banca la metà dei soldi ricevuti, perché vorrebbe, con i risparmi, avviare un piccolo business tutto suo. Anche la mamma di Joshua, che da dicembre non vive più a Kivuli, ha iniziato a ricevere il cash transfer all’inizio di quest’anno e sta pensando di ingrandire la piccola bancarella dove vende verdura lungo la strada, così che non appena il cash transfer finirà potrà occuparsi lei stessa di Joshua e di Jemimma, l’ultima figlia.
Ricongiungere i bambini con le loro famiglie di origine è diventato il centro di ogni nostro intervento. Negli anni ci è capitato di riportare in famiglia centinaia di bambini, e abbiamo visto questo nostro obiettivo diventare anche quello delle linee guida keniane e internazionali.
Parliamo con Joshua e gli chiediamo se non abbia voglia di tornare a Kivuli. Ci dice subito di no, che preferisce restare con sua madre e soprattutto sua sorella minore, perché ha voglia di conoscerla. «C’è qualcosa che ti manca di Kivuli?», chiediamo. Ci racconta del chapati del giovedì sera. Gli proponiamo di chiedere alla madre di comprargli un chapati anziché dargli i soldi per l’autobus per andare a scuola, e con grande innocenza ci risponde: «Ma la scuola è ben più importante di un chapati». Gli chiediamo di dirci un aspetto positivo del vivere a casa, e lui risponde: «A casa ho mia madre. Se sono arrabbiato per qualche motivo mi chiede sempre cosa è successo, e anche se non le rispondo subito continua a chiedermi cosa non va finché non riesco a spiegarmi e a quel punto parliamo ed io mi sento meglio».
Mentre lo ascolto mi convinco sempre di più che siano le relazioni a salvare questi bambini. Penso a Jimmy: l’ultima volta che l’ho visto viveva in strada e aveva le mani tremanti per l’eccessivo uso di droghe che aveva fatto fin da bambino. La madre un giorno si è decisa e lo ha portato in un centro contro le dipendenze. Jimmy è stato lì per sei mesi, poi è tornato dalla madre, ora vive in una baracca poco distante da lei, lavora raccogliendo il pattume dei vicini, le sue mani non tremano più e di droga non ne vuole più sentire parlare. Penso a Janet, che non ha che una nonna, e seppure la nonna viva su un cumulo di immondizia, ogni volta che Janet torna da scuola vuole andare a stare da lei.
Mi hanno detto che il cuore del nostro lavoro con i bambini sia ricostruire ciò che è stato rotto, dentro e fuori. Penso che se c’è una cosa che può cambiare per sempre la tua vita, questa sia il legame con la famiglia. Se è stato rotto per qualche motivo, sono convinta anche io che è da lì che bisogna ripartire.
Chiara Avezzano, socia di Amani, responsabile della progettazione e del coordinamento delle attività in Kenya e Zambia.