Bianco e Nero
Un genocidio all’arma bianca
1994
Anno XXXIV, n. 1 Maggio 2024 - a cura della Redazione
In circa cento giorni, da inizio aprile a inizio luglio 1994, si compì in Ruanda il più grave crimine contro ’umanità della seconda metà del Novecento.
Oltre un milione di Tutsi vennero uccisi, ma anche circa 70 mila Hutu che avevano rifiutato di unirsi ai massacri o avevano cercato di nascondere qualcuna delle vittime designate, pagando con la propria vita. Come fu detto già in quei giorni, e molte volte ripetuto poi, sarebbero bastati un migliaio di caschi blu delle Nazioni Unite e una ferma volontà politica per porre fine ai massacri. Ma i soldati Onu rimasero in pochi e la volontà mancò del tutto. L’Occidente guardò da un’altra parte oppure, come fece la Francia, sostenne il regime genocidario.
L’origine lontana del genocidio sta nell’incapacità del colonizzatore belga di capire la natura della società tradizionale ruandese, divisa in coltivatori Hutu e allevatori Tutsi, e nella volontà di rendere invalicabile il solco tra i due gruppi sociali per meglio esercitare il proprio dominio. Il progetto genocidario maturò dopo trent’anni d’indipendenza e di regime Hutu, quando i giovani della diaspora Tutsi in esilio rientrarono in armi in Ruanda, rivendicando il proprio diritto di cittadinanza. Gli eccidi iniziarono il 7 aprile, all’indomani dell’assassinio del presidente Habyarimana, il cui aereo fu abbattuto da due missili lanciati, secondo la più probabile ricostruzione, da una base delle forze armate governative. Il machete, strumento contadino, fu l’arma più usata nei massacri, i quali furono compiuti con un’efficienza impressionante, rivelando l’organizzazione e la pianificazione dell’opera di annientamento. Il genocidio ebbe fine con il crollo militare del regime e la vittoria del Fronte patriottico ruandese, l’organizzazione armata della diaspora Tutsi.