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Tutti insieme a tifare Africa
Anno XXXIV, n. 1 Maggio 2024 - di Chiara Michelon
Il fischio d’inizio è suonato domenica 11 febbraio alle 21, ora italiana, allentando un religioso silenzio. Gomito a gomito, sistemati un po’ dappertutto nel vivacissimo spazio pubblico e artistico Officina degli Esordi, a Bari, c’erano tifosi di ogni parte del mondo.
Uniti per la finale di Coppa d’Africa nel nome del calcio, certo, ma anche della fratellanza e dell’ubuntu, quella parola tutta africana che riassume concetti importanti come umanità, benevolenza, fraternità, condivisione, aiuto reciproco.
Nove giornate di partite di quella che secondo gli esperti è stata la miglior Coppa d’Africa di sempre. Partite che hanno fatto piangere, urlare e ridere, che hanno gettato tra le braccia i tifosi di vari Paesi tra colpi di scena iniziali (l’eliminazione di squadre star come il Senegal a favore di stelle minori come la Mauritania) e due semifinali da brivido. E infine l’attesa finale, in cui la Nigeria ha perso 1-2 contro la padrona di casa, la Costa d’Avorio, nonostante il supercampione Victor Osimhen, che tanto il Napoli ha rimpianto in quei giorni di Coppa.
Ma in nel controluce di partite memorabili abbiamo visto molto di più. Per esempio la clamorosa protesta dei giocatori congolesi, una mano a coprire la bocca e una alla tempia mimando un’arma puntata alla testa, per denunciare una delle più gravi crisi umanitarie del mondo, di cui chissà quanti tifosi italiani erano a conoscenza. Se un’occasione così felice e lontana dagli accadimenti politici potesse accendere i riflettori sulla complessità di un Paese pieno di contraddizioni, ingiustizie e conflitti, ne saremmo contenti. Perché è evidente che assistere a un gesto simile durante una partita di calcio, mentre stai seduto con tuo figlio accanto a un concittadino originario del Congo, che probabilmente davanti allo schermo ha gli occhi lucidi mentre ripensa ai suoi genitori a casa, ha un effetto potentissimo. Fosse servito anche solo a questo, ci basterebbe.
In realtà il passo è stato molto più lungo, perché la città di Bari si è aperta e ha tirato un filo bello grosso per allacciare lo stadio olimpico Alassane Ouattara di Abidjan al megaschermo dell’Officina degli Esordi, che guarda caso si trova al limite del quartiere più popolare di Bari, di fronte al maggior market africano della zona. Virtuosa e intuitiva l’impresa sociale Manè che, insieme a un variopinto elenco di associazioni del territorio (doveroso citarle tutte: insieme a Manè e Officina degli Esordi, Avanzi di Popolo 2.0, Kenda Onlus, Libera contro le mafie Puglia e Amani), ha costruito per la cittadinanza uno spazio dove vivere momenti di condivisione e di conoscenza reciproca, con il pretesto delle partite di calcio. In un periodo volutamente lungo, due settimane durante le quali, negli spazi messi a disposizione, si sono avvicendati baresi doc, genitori con figli, membri della numerosa comunità nigeriana, uomini e donne africani, attratti dalle partite ma anche dalla musica, dai progetti raccontati, dalla convivialità più sincera, dalla mancanza di barriere, a cominciare dalla totale gratuità.
«La proiezione delle partite», ci racconta Antonio Spera, vicepresidente di Amani, presidente del direttivo di Manè e ideatore del progetto, «si è trasformata in opportunità per offrire uno spazio in cui ritrovarsi insieme, in un contesto dedicato allo svago e alla socialità, in un tempo libero che troppo spesso non viene considerato parte integrante, e indispensabile, della vita di ciascuno. Men che meno nella vita dei migranti, visti nel migliore dei casi come forza lavoro». Nella costruzione del progetto era ben chiaro l’obiettivo: non organizzare un’iniziativa per qualcuno che spesso non c’è ma ribaltare la prospettiva, dare a tutti il diritto di abitare la città, che non è diritto alla casa ma diritto di vivere i luoghi alla pari, con la massima inclusione. «L’esperimento di progettare e sposare spazi, luoghi, cittadinanza, democrazia e partecipazione è riuscito: è questa la città che vorremmo. È il modo in cui progettiamo e pensiamo la società a creare gli inclusi e gli esclusi. Il calcio a questo scopo diventa uno strumento potentissimo, capace di mettere insieme anche cose che sono fortemente, e per fortuna, disomogenee».
Lo sport come strumento di libertà, di emancipazione, di condivisione. Lo affermava nelle sue battaglie del lontano 1968 Martin Luther King, il cui grido a favore dei diritti umani, dell’abbattimento delle barriere, dei sogni da conquistare si sente echeggiare ancora oggi. Un messaggio di pace che viaggia anche attraverso lo sport, del quale il pastore protestante aveva colto il grande potenziale democratico. È incoraggiante pensare che, nonostante sugli spalti degli stadi italiani si manifesti ancora un razzismo insopportabile, il calcio possa diventare uno strumento per fondare una nuova visione di cittadinanza fatta di integrazione e inclusione, dove tutti possono essere semplicemente sé stessi: uguali diritti, uguali doveri, uguali opportunità. Per tornare alle parole di Martin Luther King, è chiaro che «“non possiamo camminare da soli, e molti dei nostri fratelli bianchi […] sono giunti a capire che il loro destino è legato con il nostro destino e la loro libertà è inestricabilmente legata alla nostra libertà»”.
La parola “libertà” torna anche qui, a Bari. “Africa in libertà”, il titolo delle serate baresi di Coppa d’Africa, ha grandi ambizioni. Diciamolo: non è solo calcio; è qualcosa di potente, è tanto, tanto di più.
Chiara Michelon, scrittrice e volontaria di Amani dal 1999.