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Sudan, uno stato scomparso
Quattro Milioni di sfollati, un milione e mezzo di profughi. Da otto mesi due eserciti contrapposti stanno distruggendo e martirizzando la popolazione.
Anno XXIII, n. 2 Novembre 2023 - di Pietro Veronee
Nelle ultime settimane e mesi, mentre l’attenzione del mondo e l’angoscia delle persone era monopolizzata dalla guerra a Gaza, lasciando in secondo piano, ma non dimenticata, quella tra Russia e Ucraina, uno Stato è scomparso dal mappamondo.
Formalmente è ancora lì, perché a nessuno è venuto in mente di valicarne i confini e di appropriarsene. Ma quello Stato non esiste più. Non ha un’autorità centrale, un governo, scuole, ospedali, servizi, energia elettrica, sicurezza, difesa dell’incolumità dei singoli. Non ha più niente, non è più niente, se non lo scenario di violenze inenarrabili, soprusi, uccisioni, orrori. Una giungla mortale percorsa da bande armate senza legge, dalla quale è fortunato chi fugge.
Questo Stato è il Sudan, un tempo – prima che nel 2011 una parte se ne staccasse rendendosi indipendente – il più vasto dell’Africa. Era una grande nazione africana il Sudan, ricca di tradizioni anche moderne, un forte movimento sindacale, una vibrante vita politica malgrado le dittature che ne hanno funestato la storia, eccellenti università, amatissimi artisti, tecnici, studiosi, una capitale tra le più colte e raffinate del continente. Tutto questo non esiste più, sostituito dalla devastazione universale. Da una violenza «raccapricciante» che ormai «rasenta il male puro», ha detto la coordinatrice umanitaria Onu, la camerunese Clementine Nkweta-Salami.
La tragedia del Sudan è cominciata il 15 aprile 2023 e non è più finita, interrotta solo da qualche accordo di cessate il fuoco ignorato dopo poche ore. Il tentativo saudita-americano di convincere i contendenti a far tacere le armi non ha dato, per mesi, alcun frutto. Anche se questo risultato dovesse essere raggiunto, e magari durare, il danno è irreversibile. Forse un qualche potere avrà il sopravvento, gli aiuti torneranno ad affluire, qualcosa verrà ricostruito, ma la ferita appare adesso troppo profonda per potersi mai rimarginare. Le vittime civili superano i diecimila morti, gli sfollati i cinque milioni, i rifugiati negli Stati confinanti sono un altro milione e mezzo. «Non abbiamo più parole per descrivere l’orrore di quanto sta accadendo», ha detto ancora la coordinatrice Onu. «Continuiamo a ricevere incessanti e sconvolgenti rapporti su violenze sessuali e di genere, sparizioni, detenzioni arbitrarie, violazioni dei diritti umani di adulti e bambini».
All’origine della catastrofe c’è lo scontro tra le forze armate governative, guidate dal generale al Burhan, e l’esercito parallelo chiamato Forze di supporto rapido (Rapid Support Forces, RSF), creato da un feroce signore della guerra, Mohamed Hamdan Dagalo detto Hemetti, divenuto nell’ultimo ventennio molto ricco e potente. La fortuna di Hemetti si è fatta sotto la dittatura di Omar al Bashir, anch’egli un generale, deposto e arrestato nel 2019. All’inizio del secolo, per il regime di al Bashir si era aperto un nuovo fronte di guerra civile nelle remote province occidentali del Darfur. Hemetti, un darfuriano, appartenente a una famiglia di allevatori e commercianti di cammelli di etnia araba, organizzò una milizia privata con la quale seminò il terrore nei villaggi contadini del Darfur. Divenne una sorta di proconsole del governo centrale, alleato di Bashir, dal quale ricevette carta bianca per i suoi abusi. Col tempo, la milizia a cavallo si trasformò in un agguerrito esercito privato, le Forze di supporto rapido, che serviva anche al dittatore come contrappeso ai generali delle forze armate regolari. Questo instabile sistema di potere precipitò nel 2019, quando la società civile sudanese dette vita a un grande movimento nazionale di protesta contro la dittatura. Dapprima, scioperi e manifestazioni vennero repressi. Poi al Buhran e Hemetti ci videro un’opportunità, si allearono, e fecero crollare il regime senza sparare un colpo. Adesso gli “uomini forti” erano loro due.
Seguirono quattro anni di grande instabilità. Partiti e organizzazioni della società civile chiedevano che la loro rivoluzione democratica si compisse e gli uomini in uniforme lasciassero il potere. Militari e signori della guerra accettavano tutt’al più una tesa coabitazione. Dopo molti alti e bassi, tensioni, scontri, un tentativo di colpo di Stato, faticose mediazioni internazionali, sembrò che il processo democratico si fosse riavviato. Le Forze di supporto rapido avrebbero dovuto essere integrate in quelle governative. È stato su questa questione nevralgica – le nuove gerarchie e catene di comando, e la riorganizzazione delle ingenti attività economiche e connessi profitti, da sempre appannaggio delle forze armate in Sudan – che la guerra è scoppiata. A dare l’ordine di sparare è stato Hemetti, alle sue fedeli formazioni paramilitari.
Verrebbe da chiamarla guerra civile, perché i contendenti appartengono alla stessa nazione, e si combatte all’interno dei confini. In realtà è uno scontro totale tra due eserciti. La società non è divisa tra i due schieramenti, bensì è il loro campo di battaglia. È la vittima di entrambi. Assistiamo a una forma di conflitto del quale è difficile trovare esempi nei tempi moderni. Una guerra contro la società.
Nelle prime settimane, il terreno di scontro è stata la vastissima capitale del Sudan, Khartoum, divisa in tre grandi sottoinsiemi dalla confluenza dei due rami del Nilo, il Bianco e l’Azzurro. Nella città i contendenti si sono affrontati con l’intero loro arsenale, i governativi anche con l’aeronautica, che Hemetti non ha. Gli ospedali hanno presto cessato di funzionare, i quartieri sono diventati preda di saccheggi e barbarie, le donne violentate negli appartamenti, i morti lasciati nelle strade. Poi si è aperto un nuovo fronte in Darfur, dove le RSF hanno espugnato città e capoluoghi e si sono abbandonate a massacri di dimensione genocidaria contro i Masalit, la locale popolazione di etnia africana. Gli esperti spiegano che il reclutamento delle forze di Hemetti avviene su base clanica, per cui ormai la soldataglia obbedisce solo al suo comandante di unità e il Darfur è oggi in preda alle razzie di un moltiplicarsi di mini-eserciti.
Il quadro generale che si riesce a disegnare sulla base di notizie frammentarie e incerte sembra indicare che l’esercito regolare sia in forte difficoltà. Un’impressione indirettamente confermata dalle ripetute dichiarazioni di al Burhan in favore di un negoziato, che Hemetti invece ignora. Tuttavia l’imprevedibilità, la volatilità della situazione è rafforzata dall’instabilità regionale, che il conflitto ha ingigantito. Sia al Buhran che Hemetti hanno i loro alleati, dal libico Haftar all’Egitto agli Emirati Arabi, ciascuno dei quali gioca una sua partita geopolitica. L’enorme afflusso di rifugiati in Paesi già in gravissima difficoltà interna, come il Ciad, la Repubblica Centrafricana, il Sud Sudan, rischia ogni giorno di dare il colpo di grazia a contesti da tempo senza equilibrio. Tutto ciò è preoccupante? Sì, spaventosamente preoccupante. Grande, però, è il silenzio dei media, quanto meno nel nostro Paese.
Pietro Veronee, giornalista e socio di Amani.