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Senghor a scuola dal gesuita scienziato
Anno XXXIV, n. 2 Novembre 2024 - di Pier Maria Mazzola
«La tigre non proclama la sua tigritudine, balza sulla preda» è la celebre frase con cui Wole Soyinka demolì la “Negritudine” di Léopold Sédar Senghor. Non solo il Nobel nigeriano ma anche molti africani trovavano Senghor troppo molliccio con l’Occidente, la Francia in particolare. «La mia generazione – ha confessato lo storico senegalese Mamadou Diouf – non lo amava molto: perché era presidente, perché parlava sempre della Francia… Per di più non lo leggevamo; pensavamo di conoscere quello che lui diceva dalla lettura di ciò che altri scrivevano di lui, i critici più virulenti». Anni dopo, alla luce dell’esito della Commissione Verità e Riconciliazione sudafricana, Soyinka ammetterà: «Senghor credeva che il perdono fosse essenziale in una situazione in cui non può essere resa vera giustizia».
Nato in Senegal nel 1906 e morto in Normandia nel 2001, Senghor è uno dei padri della Negritudine, il movimento culturale di riscatto esploso nel dopoguerra. Primo presidente del Senegal, sarà uno dei padri dell’Africa indipendente – e il primo di loro a ritirarsi. Qualche anno dopo sarà il primo africano all’Académie française.
Perché riesumare Senghor, in assenza di anniversari tondi o di novità editoriali? (C’è solo la recente notizia del salvataggio della sua biblioteca, voluto dal neoeletto capo dello Stato senegalese). Perché la sua appare una postura dolorosamente rara, oggi. In un mondo post-razionale e violento, dove anche giuste rivendicazioni rischiano di finire nel macinino della cancel culture, Senghor è un campione di riflessione incontentabile. Ha creduto nel marxismo, ma senza esserne soddisfatto appieno, e ha immaginato una via africana al socialismo, senza rinunciare alla spiritualità. La sua Negritudine non si fa torre d’ebano, osa anzi entrare in dialogo con l’ex schiavista e colono fino a innervare una «Civiltà dell’Universale», ad aprire la strada all’«appuntamento del dare e del ricevere per tutte le civiltà». Tutte cose che il presidente-poeta ha messo nero su bianco in forma anche sistematica, come nei cinque volumi della sua opera Liberté (in Italia ha visto la luce solo il primo, giusto cinquant’anni fa).
Per la sua ricerca un incontro fu decisivo: Pierre Teilhard de Chardin, gesuita francese di cui ricorrono, nel 2025, il 70° della morte e il centenario dell’inizio di una vicenda che ne fece quasi un Galileo del XX secolo, anche se è sempre riuscito a scansare formali condanne ecclesiastiche. Poi si sono messi a citarlo perfino i papi, da Paolo VI in poi. E l’editrice del Vaticano sta per dare alle stampe una sua biografia.
Geologo e paleontologo, Teilhard si espresse, per esempio, sul monogenismo/poligenismo, schierandosi per il secondo e dunque andando fuori strada, agli occhi del Sant’Uffizio, sul dogma del peccato originale. È che la sua opera di ricerca gli andava confermando il fondamento scientifico dell’evoluzione (anche senza allinearsi esattamente con il darwinismo – preferiva parlare di «trasformismo»). Soprattutto sviluppò una visione della Materia che, senza dismettere le vesti di scienziato, costituiva il punto di partenza per le meditazioni più elevate, fino allo Spirito. E vedeva l’evoluzione attualmente all’opera, destinata a far «crescere» il mondo e l’esperienza umana nonché, in certo senso, Cristo stesso, «sempre più grande». Il «Punto Omega» della «amorizzazione».
Per Senghor fu una folgorazione. Per lui il Punto Omega era la Civiltà dell’Universale. Una sorta di traduzione, nella storia delle civiltà, dello schema hegeliano tesi-antitesi-sintesi, dove le prime due fasi sono l’Africa e l’Europa. In una conferenza del 1961 (reperibile in italiano nel volume Politica africana), di lettura non sempre facile, Senghor descrive l’impatto di Teilhard su di lui. Tra le molte osservazioni non poteva mancarne una sulle razze, che per Teilhard, spiega Senghor, «non si sono sviluppate in tipi distinti (phylum). Esse non sono pure: scientificamente, anzi, non esistono. In ogni razza si trovano i quattro gruppi sanguigni»… eccetera.
In altre parole, l’eredità politica e letteraria di Senghor è profondamente intrecciata con le intuizioni “materico-filosofiche” di Teilhard. Ciascuno a modo proprio ha contribuito a una comprensione della cultura e della spiritualità ampia. Sulla strada, diremmo oggi, di una interconnettività globale. Perché «co-noscere», diceva Senghor, è «co-nascere».
Pier Maria Mazzola, giornalista e traduttore.