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RITORNI
Anno XXXIV, n. 1 Maggio 2024 - di Anna Ghezzi
Anna e altre volontarie sono tornate a Nairobi. Ecco cosa è profondamente cambiato dalla prima esperienza di quasi 20 anni fa.
Nelle case di accoglienza sostenute da Amani a Nairobi alcuni letti sono vuoti. Eppure Mary Osinde, l’educatrice che ci ha accolte e che da 8 anni lavora in una delle case, racconta che ci sono sempre più famiglie con bimbi piccoli e giovani adulti che vivono ai margini della megalopoli, tra polvere e traffico, mettendo un giorno davanti all’altro. Cosa succede, allora? Succede che per ogni letto vuoto in più a Kivuli, Casa di Anita, Ndugu Mdogo, c’è un bimbo in più che è rimasto a casa con la sua famiglia grazie al nostro sostegno. Bambini che in strada non ci sono proprio finiti, perché si è intervenuti prima per sostenere madri spesso sole ma determinate a tutto, nonostante ostacoli impensabili per noi a 9mila chilometri di distanza. Oppure bambini che, dopo la strada, sono arrivati nei centri e non appena possibile sono stati accompagnati al rientro a casa, con tutto il sostegno possibile. Perché nell’occuparsi di un bimbo, si aiuta tutta una famiglia.
Sylvia ha 28 anni e due figli, Jason e Jaiden. Ha aperto il J&J salon grazie al sostegno mensile che riceve col progetto NICE, vende prodotti di bellezza ed è diventata un punto di riferimento in zona. «I miei figli mi hanno dato la forza di combattere», dice. A casa loro, due stanze, ci si va da Mother House, sede di Families to families, che si occupa anche di seguire i bimbi reintegrati a casa. Jason ora è prefetto nella sua scuola, compito riservato agli studenti più responsabili. Il rientro dopo 3 anni a Kivuli non è stato facile: non usciva di casa, non parlava. C’erano relazioni da ricostruire, un nuovo quartiere a cui abituarsi. Ora coi bimbi del vicinato esce a giocare tra un compito e una lezione e questa è diventata davvero casa: «Piuttosto mangio una volta in meno – dice a Jane Wanjiru, referente di FtoF – ma voglio restare con la mia mamma». La mamma che ti chiama per nome, quando ti dà la buonanotte.
Jane conosce Sylvia, la strada percorsa, gli ostacoli. Sul tavolo ha un modulo da riempire per non dimenticare nulla quando sarà il momento di capire con gli altri della squadra cosa fare, e come. «Il tragitto da casa a scuola è sicuro?», chiede. Jason si mette in marcia alle 5:30 di ogni mattina; se il tragitto non è sicuro bisogna inventare soluzioni percorribili. Domande, ascolto, disponibilità a capire. «Ogni anno cambiamo alcune cose, nel nostro modo di agire, progettare, intervenire – spiega Jane – sulla base di quello che vediamo funzionare meglio o peggio».
Il lavoro con e per le famiglie è il cuore di NICE, progetto che ha compiuto da poco un anno e per chi, come me, torna a Nairobi dopo qualche tempo, sembra aver consolidato e rinnovato quell’approccio che Koinonia e Amani hanno maturato negli anni. NICE sta per “Need for inclusive children education” (Necessità di una educazione inclusiva per i ragazzi), è finanziato dalla Cooperazione italiana per tre anni e Amani è capofila al fianco di Koinonia, EducAid e Cittadinanza.
Un’altra mamma ci accoglie in una stanza di lamiera: anche lei si chiama Sylvia, ha 38 anni, con il contributo di NICE ha messo in piedi una coltivazione di sukumawiki, l’onnipresente cavolo verza della cucina keniana: ha affittato alcuni terreni con un’amica, ci coltivano il cavolo e lo vendono all’ingrosso. David, il figlio più grande, 15 anni, ha vissuto per un po’ a Kivuli. Sua sorella, 12 anni, ha rischiato di non andare più a scuola perché pagare uniformi, lezioni, pasti, non è semplice. «Il padre beveva, se n’è andato quando la nostra terza bimba aveva un anno – racconta Sylvia – . Io per vivere lavavo vestiti ai vicini, ma un giorno guadagni 500 scellini e poi non lavori per una settimana». E i tre euro e 22 centesimi devono bastare per tutto. Non è servito molto denaro per uscire da questa spirale: dopo l’investimento iniziale per avviare la coltivazione, Sylvia oggi guadagna il doppio di quanto spende. Quando le piantine stanno crescendo e non c’è molto da vendere, lava ancora panni. Coi primi soldi guadagnati ha fatto tornare a scuola David. Preferisce non fare il passo più lungo della gamba, continuano a vivere in quell’unica stanza, una tenda a separare la notte dal giorno, e parte delle entrate le reinveste nell’impresa. Eppure la tentazione di trovare un posto più confortevole deve essere forte: il caldo soffocante, il cortiletto curato è un inferno di rumore, tra vicini con la radio a tutto volume e un pastore che predica e canta.
Traffico e polvere sono gli stessi di 19 anni fa, quando sono arrivata qui per la prima volta. Ma Nairobi è una città molto diversa da allora. L’odore di fogna e i salti sul matatu, sulla Kabiria Road piena di buche, sono solo un ricordo. Se nel 2005 dopo Kivuli “era tutta campagna”, oggi, superato il cancello azzurro, c’è ancora città. Palazzi spuntano come funghi a Riruta Satellite. C’è una sopraelevata come a Genova. Tone La Maji si raggiunge su una strada meno panoramica, forse, ma più accessibile, su cui si affaccia lo Shalom Garden, dove lavorano alcuni ex ragazzi dei centri. Persino la Casa di Anita, a ogni ritorno, sembra più vicina. Ci sono ancora invece i negozi di legno (dove si paga con il cellulare), i mandazi fritti da signore accovacciate e i macellai con un solo pezzo di carne in vetrina. Scritte colorate sull’intonaco e vistosi schermi a led, fiumi di persone che si spostano a piedi per lavorare e ingorghi di macchinoni. Restano le baraccopoli come Kibera dove, come racconta Samuel Mangera, operatore sociale, «c’è posto per tutti», malgrado tutto. Ricchezza e povertà a pochi metri l’una dall’altra, distanze economiche siderali da un lato all’altro della stessa strada.
Tutto cambia, cresce, evolve. Paolo’s Home era una stanza sul cortile di Ndugu Mdogo, ora è un centro diurno per bambini con bisogni educativi speciali e disabilità fisiche, personale preparatissimo, ambulatori, impegno contro lo stigma che aggredisce i disabili e i loro cari. A Tone La Maji c’è un nuovo asilo e un impianto a biogas che fa risparmiare sui costi di gestione. Ma non è solo questione di muri e spazi che cambiano. È la professionalità con cui vengono cercate soluzioni alle infinite sfide quotidiane, in un rapporto alla pari tra Amani e Koinonia che è sempre stato un faro e ora è ancora più concreto. «La cosa che mi ha più colpito è il personale – racconta Silvia Maffoni, ex campista e socia di Amani, tornata a Nairobi con me, Attilia Marchesi e Maria Pia Borrelli -. Ho trovato professionisti giovani, preparati, coinvolti, con la voglia di spiegare e far conoscere e una visione di lungo periodo».
Tornare, anche questa volta, mi ha permesso di incontrare bimbe e bimbi ora grandi, in cerca di una strada o realizzati con i loro progetti. E riportare a casa spunti ed emozioni, per ricominciare.
Anna Ghezzi, giornalista e volontaria di Amani.