Articolo
Resistance
Anno XXI, n. 2 Novembre 2021 - di Tommaso Perrone
La forza degli africani contro l’emergenza climatica nelle foto di Peter Caton per il calendario Amani 2022.
Arrivato alla sua 25° edizione, il calendario affronta il tema del cambiamento climatico attraverso 13 immagini del fotografo documentarista britannico Peter Caton in diverse aree dell’Africa. Una straordinaria narrazione fotografica per comprendere le conseguenze dell’emergenza ambientale che costringe le popolazioni africane a resistere in condizioni estreme. Il calendario è dedicato a loro.
Le fotografie che Peter Caton ha scattato in Sud Sudan per documentare le inondazioni che hanno colpito nell’ultimo anno e mezzo lo stato di Jonglei racchiudono tutto ciò che per anni si è cercato di raccontare attraverso parole troppo spesso difficili da interpretare, se non addirittura comprendere. Cosa significa “evento meteorologico estremo”? Cosa vuol dire “giustizia climatica”? Perché la crisi climatica sta esacerbando le disuguaglianze sociali? Negli scatti di questo calendario troviamo le risposte.
La crisi climatica ci riguarda tutti da vicino, ricchi e poveri, giovani e vecchi, bianchi e neri. Non esiste luogo al mondo che si possa dire al riparo dalle conseguenze dell’aumento della temperatura media globale. Eppure non tutti siamo, non tutti i Paesi sono allo stesso modo responsabili della condizione che stiamo vivendo. Se prendiamo in considerazione le emissioni di gas serra (i più noti sono l’anidride carbonica e il metano) cumulate in atmosfera dal 1850 ad oggi, ci rendiamo conto di come Europa e Nord America – Russia e Stati Uniti su tutti – abbiano contribuito per oltre il 60 per cento del totale. Mentre la Cina, che oggi viene additata come l’unica colpevole, ha una responsabilità storica che non arriva al 13 per cento del totale delle emissioni. Una parte di queste, peraltro, sono emissioni “d’asporto”, cioè sono state causate per alimentare lo stile di vita occidentale. Questo non significa che la Cina non abbia responsabilità, tutt’altro: oggi rappresenta il 27 per cento delle emissioni su base annua. Ma è chiaro che la lotta contro la crisi climatica si vince solo se si agisce uniti, Paesi industrializzati ed emergenti. Perché i gas serra, a differenza dei governi, non conoscono confini.
Torniamo al Sud Sudan e al suo continente. Che ruolo ha l’Africa nella crisi climatica? Pur subendo le conseguenze peggiori del riscaldamento globale, è responsabile solo del 3 per cento delle emissioni cumulate, storiche. Oggi poco o nulla è cambiato, con l’intero continente che non arriva al 4 per cento di emissioni di globali.
Eppure solo in Sud Sudan la crisi climatica ha acuito così gravemente le sofferenze della popolazione. Le inondazioni hanno interessato 1,6 milioni di persone, mentre 6,4 milioni patiscono la mancanza di sicurezza alimentare. La metà proprio a causa dell’emergenza documentata da Caton. Ma è l’intero continente a soffrire gli effetti del riscaldamento globale, dalla siccità alla perdita di habitat, fino a casi di carestia. È il caso del Madagascar dove, al contrario del Sud Sudan, non piove praticamente da cinque delle ultime sei stagioni delle piogge. Una condizione paradossale, dovuta allo sfruttamento delle risorse e al degrado degli habitat da parte di Paesi stranieri. Lo stile di vita dei malgasci, infatti, non può in alcun modo aver influito direttamente sull’emergenza in corso: l’elettricità sull’isola scarseggia, così come le automobili e l’impatto dei suoi abitanti è tra i più bassi al mondo.
Anche in Kenya, dove Amani da anni lavora per offrire un futuro a tantissimi bambini e bambine, la situazione non è molto diversa. Nel 2021 il governo di Nairobi ha dichiarato lo stato d’emergenza, causato dalla siccità che ha messo a rischio la sicurezza alimentare di oltre 2 milioni tra keniani e rifugiati presenti nel Paese. Numeri che mettono in ombra persino la pandemia.
A proposito di rifugiati, questa situazione porta anche a un altro fenomeno, quello dei migranti climatici, flussi di persone che tentano di costruirsi un futuro lontano da una casa che non c’è più o non è più in grado di accoglierle. Entro il 2050, l’Africa subsahariana potrebbe registrare fino a 86 milioni di sfollati, su un totale di 216 milioni previsti nel mondo dal rapporto Groundswell della Banca Mondiale.
Così torniamo al tema iniziale, quello delle disuguaglianze e della giustizia sociale, perché la crisi climatica fa da rivelatore di un sistema profondamente ingiusto, che causa sofferenze a persone completamente incolpevoli e ignare. Le foto di Caton raccontano tutto questo. Mostrano il vero significato che milioni di giovani danno all’espressione “giustizia climatica” scioperando e scendendo in piazza da anni, dalla prima mobilitazione dell’attivista Greta Thunberg il 20 agosto 2018. La giustizia climatica è una condizione da raggiungere per permettere a tutta l’umanità di vivere e prosperare in un ambiente sano. Affinché questo avvenga, è necessario trattare le crisi sociale, ambientale e climatica come fenomeni interconnessi, che si alimentano l’uno con l’altro. Solo così si possono trovare soluzioni efficaci che non lascino indietro nessuno.
Vanessa Nakate, classe 1996, leader del movimento Fridays for Future in Uganda, ha portato la sua testimonianza agli ultimi negoziati internazionali per il clima con un discorso che ha sorpreso leader e addetti ai lavori. Queste le sue parole, i suoi dubbi, le sue richieste a cui tutti dovremmo sentirci in dovere di dare risposta: «Per quanto tempo dovremo assistere all’estinzione degli animali? Per quanto le bambine saranno costrette a sposarsi perché le loro famiglie hanno perso tutto nella crisi climatica? Per quanto i bambini dovranno andare a letto affamati perché l’acqua ha portato via tutto o perché i campi sono aridi a causa delle condizioni estreme? Per quanto tempo li guarderemo morire di fame, durante la siccità? O mentre cercano di respirare durante le alluvioni? Come fanno i leader a guardare quello che succede e non fare niente per porvi fine?».
Parole che fanno capire al mondo quanto la crisi climatica sia già in atto. Per questo non basta più pensare a come mitigare, cioè ridurre, le emissioni. E non basta nemmeno procrastinare le politiche di adattamento, cioè quelle che ci dovrebbero rendere meno vulnerabili a eventi estremi. Per molti africani non c’è più tempo per i “bla, bla bla” e spesso non c’è neanche più lo spazio. Perché, come ci insegna la giovane attivista Nakate, «non ci si può adattare alla perdita delle tradizioni, non ci si può adattare alla perdita della storia. Non ci si può adattare alla fame e non ci si può adattare all’estinzione».
Tommaso Perrone, direttore di LifeGate, esperto in tema di cambiamenti climatici e volontario di Amani.