Articolo
Preghiere per la pioggia
intervista a Stefano Caserini - docente di mitigazione dei cambiamenti climatici al Politecnico di Milano
Anno XXIII, n. 1 Giugno 2023 - di Diego Tavazzi
L’ultimo è stato il Presidente Sergio Mattarella, che a metà marzo, nel corso di una visita di Stato in Kenya, è intervenuto a lungo sul tema dei cambiamenti climatici, sottolineandone la gravità crescente e i rischi che pongono al continente africano. Il suo intervento è andato ad aggiungersi all’elenco, ormai lunghissimo, delle persone e delle istituzioni che hanno lanciato l’allarme sul riscaldamento globale: lo stesso Mattarella, nel corso della prolusione all’Università di Nairobi, ha infatti citato un articolo pubblicato nel 1912 (!) sulla rivista “Popular mechanics”, che avvertiva che l’aumento della concentrazione dell’anidride carbonica in atmosfera avrebbe portato a un innalzamento delle temperature, i cui effetti, concludeva l’autore, si sarebbero fatti sentire “nell’arco di alcuni secoli”.
Già più di cent’anni fa, quindi, le cose erano, almeno nelle loro linee generali, chiare: le attività umane stanno modificando la composizione chimica e le caratteristiche fisiche dell’atmosfera, dei mari e dei suoli, e questo determina un incremento della temperatura media globale. Se è vero che il clima è sempre cambiato, è altrettanto vero che l’azione umana si sta sovrapponendo a questa variabilità naturale, modificandone ritmi, schemi e configurazioni spaziali a una velocità che, con ogni probabilità, ha pochi paragoni nella storia, lunghissima, del pianeta.
Per cercare di capire quali possono essere gli impatti del global warming sull’Africa, abbiamo raggiunto Stefano Caserini, professore di mitigazione dei cambiamenti climatici al Politecnico di Milano e cofondatore del sito climalteranti.it, da anni una delle fonti più autorevoli sul tema nel nostro paese.
D. Prof. Caserini, è possibile delineare quali sono e quali saranno gli impatti del riscaldamento globale sul continente africano?
R. Partirei da alcuni dati complessivi: come ci ricorda lo “State of the Climate in Africa 2021” della World Meteorological Organization, tra il 1991 e il 2021 l’Africa si è riscaldata a un tasso medio di circa +0,3 °C per decade, in accelerazione rispetto al periodo 1961-1990, quando l’incremento era stato pari a +0,2 °C per decade. Sempre secondo la WMO, il livello del mare lungo le coste africane si sta alzando a un tasso superiore a quello medio globale, soprattutto lungo il Mar Rosso e l’Oceano Indiano sudoccidentale. È probabile che questo fenomeno continui in futuro, contribuendo ad aumentare la frequenza e la gravità delle inondazioni costiere nelle città a bassa quota: la WMO prevede che entro il 2030 circa 110 milioni di persone in Africa saranno esposte ai rischi legati all’innalzamento del livello del mare.
Un altro aspetto particolarmente problematico è quello dell’acqua. Da un lato, la WMO evidenzia come negli ultimi la siccità in Africa orientale si sia aggravata a seguito di una serie di “stagioni delle piogge” disastrose, fattore che si è combinato con l’intensificarsi dei conflitti, le migrazioni interne e le restrizioni dovute alla pandemia da COVID-19. Dall’altro, Sud Sudan, Nigeria, Repubblica del Congo, RDC e Burundi sono stati colpiti da gravissime inondazioni.
Nel complesso, sempre secondo il report della WMO, negli ultimi 50 anni, gli effetti della siccità hanno causato la morte di oltre mezzo milione di persone e perdite economiche per oltre 70 miliardi di dollari nella regione. Nello stesso periodo, sono stati segnalati più di 1.000 disastri legati alle inondazioni, che hanno causato più di 20.000 morti in Africa, ed entro il 2050 gli impatti climatici potrebbero costare alle nazioni africane 50 miliardi di dollari all’anno.
La WMO evidenzia come l’aumento della temperatura abbia contribuito a ridurre del 34% la crescita della produttività agricola in Africa dal 1961, più di qualsiasi altra regione del mondo. È probabile che questa tendenza continuerà in futuro, aumentando il rischio di insicurezza alimentare acuta e malnutrizione.
Inoltre, le notizie non sono buone nemmeno per le superfici ghiacciate, in tutto il pianeta e inevitabilmente anche in Africa: gli studi selezionati dall’IPCC e presentati nell’ultimo rapporto, il Sesto Rapporto di Valutazione (AR6), prevedono che la copertura glaciale scomparirà prima del 2030 sui Monti Rwenzori e sul Monte Kenya, ed entro il 2040 sul Kilimanjaro.
Sempre l’AR6 stima poi che il numero dei cicloni tropicali che arrivano a terra sia destinato nel complesso a diminuire; tuttavia, anche se meno frequenti, questi cicloni diventeranno più intensi, con il rischio che i danni che provocano siano più gravi. In effetti, negli ultimi anni si sono verificati cicloni catastrofici come Idai e Kenneth, che hanno colpito il Mozambico e gli stai vicini a marzo e aprile del 2019. Il solo Idai ha ucciso più di 1.500 persone in Mozambico, Malawi e Zimbabwe.
Quello africano è però, appunto, un continente, e anche se dalle normali mappe può non risultare evidente, è effettivamente un territorio vastissimo: con i suoi oltre 30 milioni di chilometri quadrati è più grande di Cina, India, Stati Uniti e della maggior parte dell’Europa presi insieme. Non è quindi facile, anche se la risoluzione dei modelli climatici migliora costantemente, definire con esattezza gli impatti su una singola regione.
Per fortuna, però, le analisi dell’AR6 ci vengono in aiuto, visto che dividono l’Africa in 5 macroaree (nord, ovest, centro, est e sud). Kenya e Zambia si trovano rispettivamente nel settore orientale e meridionale nella divisione adottata dell’IPCC. Per il settore orientale, l’IPCC prende a riferimento tre scenari diversi di riscaldamento globale, 1,5 °C, 2 °C e 3 °C rispetto ai livelli preindustriali, e stima che le temperature medie annuali in quel settore saranno in media più alte rispettivamente di 0,6 °C, 1,1 °C e 2,1 °C in confronto alla media del periodo 1994-2005, con un aumento più marcato nelle aree settentrionali e minore in quelle costiere. Più sensibili gli aumenti nella parte meridionale: sempre facendo riferimento agli stessi scenari di riscaldamento globale, si avranno aumenti di 1,2 °C, 2,3 °C e 3,3 °C rispetto alla media 1994-2005.
D. Quali potrebbero essere gli impatti concreti di questi aumenti di temperatura?
R. Anche in questo caso la letteratura scientifica raccolta dall’IPCC ci viene in aiuto. Sempre focalizzandoci sulle aree orientali e meridionali, per le prime si stima che a un aumento della frequenza dei fenomeni con precipitazioni molto intense si accompagnerà una crescita della durata e dell’intensità della siccità in Sudan, Sud Sudan, Somalia e Tanzania (ma senza variazioni o addirittura con una diminuzione dei fenomeni siccitosi in Kenya, Uganda e negli altopiani etiopici). Più importanti gli impatti nell’area meridionale, dove le precipitazioni medie annue nella regione delle piogge estive dovrebbero diminuire del 10-20%, con un aumento del numero di giorni consecutivi di siccità durante la stagione delle piogge. Inoltre, si prevedono siccità senza precedenti (rispetto al periodo 1981-2010) se il riscaldamento globale dovesse arrivare a 2 °C.
D. Ma tutte questi cambiamenti che effetti avranno sulle popolazioni africane?
R. Qui la risposta si fa davvero complessa, perché se per la fisica dell’atmosfera abbiamo un insieme di conoscenze che ci permettono di dire cosa è ragionevole pensare possa accadere in diversi scenari di evoluzione del clima globale, per le dinamiche socio-economiche fatichiamo ancora ad avere proiezioni affidabili. Partirei però da una constatazione: quando si parla di impatti sulle comunità umane, il cambiamento climatico può essere inteso come un “moltiplicatore di minacce”, che va a esacerbare conflitti e tensioni già esistenti, imponendo redistribuzioni di popolazioni e nuove modalità di distribuzione delle risorse. Non ci sono quindi esiti predefiniti, molto dipende dalle conoscenze disponibili, dalla volontà politica, dalla capacità di investire e innovare, da dinamiche demografiche…
Prendiamo per esempio il caso degli effetti dei cambiamenti climatici sulle migrazioni, distinguendo tra migrazioni interne e internazionali. Per le prime, secondo alcune ricerche il peggioramento delle condizioni economiche causato dai rischi climatici può incoraggiare l’emigrazione; tuttavia, quelle stesse perdite economiche possono intaccare le risorse di cui le famiglie hanno bisogno per migrare, e l’effetto netto di queste due dinamiche non è ancora chiaro. Anche i fenomeni di urbanizzazione risentono delle variazioni delle condizioni climatiche nelle aree rurali, e quando le variazioni nei regimi delle piogge e la siccità riducono le rese agricoli o i mezzi di sussistenza pastorali le persone possono essere costrette a spostarsi in città, spesso andando ad accrescere gli slum. Va però ricordato, come evidenziato da molti studi, che i processi di urbanizzazione non sono a senso unico. Spesso, infatti, le aree periurbane e rurali diventano motori per lo sviluppo, grazie all’accresciuta domanda di cibo, ai legami familiari e sociali e ai flussi di ritorno verso le aree rurali di beni e servizi e di investimenti finanziari. In generale, più alta è l’agency (intesa come capacità di scelta), maggiori sono i potenziali benefici per le aree di provenienza e di accoglienza.
Anche per quanto riguarda le migrazioni internazionali non ci sono evidenze inequivoche. Alcuni studi suggeriscono che nei paesi a basso reddito le temperature elevate bloccano le persone in patria riducendo i tassi di migrazione all’estero, ma nei paesi a medio reddito e in quelli più poveri e più dipendenti dall’agricoltura quelle stesse temperature elevate incoraggiano invece l’emigrazione. Dato da non trascurare, tendono a partire le persone più istruite, lasciando intravedere una possibile “fuga di cervelli”.
D. Insomma, un quadro critico e con molti chiaroscuri. Ma cosa si può fare per evitare gli impatti peggiori?
R. Bisogna intanto partire dalla constatazione di un paradosso che ha un sapore di ingiustizia: l’Africa rappresenta il 2-3% circa delle emissioni globali di gas serra, ma soffre in modo sproporzionato degli impatti. Per questo, è importante da un lato scegliere un percorso che garantisca un benessere sostenibile a quante più persone possibile, e dall’altro è necessario farlo in fretta. In questo caso, le analisi raccolte dall’IPCC delineano uno scenario chiaro: le energie rinnovabili e una progettazione dei sistemi agricoli, idrici e urbani resilienti che abbia bene in vista i rischi posti dai cambiamenti climatici sono gli elementi fondamentali per consentire all’Africa di adattarsi. E se non saranno messe in campo le azioni di adattamento e di mitigazione la situazione si farà via via meno gestibile.
Diego Tavazzi, volontario di Amani dal 2007.