Articolo
L’economia delle buone intenzioni
Un libro di 80 anni fa spiega perché l’abolizione dello schiavismo fu una questione di convenienza e non di principio.
Anno XXII, n. 1 Giugno 2022 - di Pier Maria Mazzola
Sfoglio un libro, seduto a una finestra quasi in riva al Tamigi, con vista sulle torri di Canary Wharf, la nuova City di Londra. A pagina 81 ho un sobbalzo. I mercanti – leggo – che a fine Settecento operavano nelle Indie occidentali avevano un grosso problema: tanto impetuosa era la crescita dei commerci marittimi imperiali che i loro sacchi di zucchero rimanevano a lungo accatastati, nella confusione, sui moli lungo il fiume, alla mercé di furti massicci (si parla di diecimila ladri all’opera). Gli zuccherieri ottengono dal Parlamento un’area portuale protetta. La inaugureranno nel 1802 e la prima nave vi entrerà con un dolce carico di 600 tonnellate. Ma dove saranno, oggi, quegli antichi docks?
Ricordo di essere passato davanti a un locale chiamato Rum & Sugar, ricavato in quelli che furono magazzini lungo un canale di Canary Wharf. Avessi allungato di poco la passeggiata, avrei scoperto il Museum of London Docklands, accolto dalla statua dell’ideatore del progetto del porto dello zucchero, Robert Milligan. Anzi no. Il sindaco Sadiq Khan l’ha fatta rimuovere giusto due anni fa. Milligan fu mercante (anche) di schiavi.
Più difficile sarebbe rimuovere anche le sfavillanti cattedrali della finanza e del turbosuccesso economico che svettano intorno specchiandosi nelle darsene, plastica rappresentazione di come una gran parte della ricchezza britannica (e non solo) poggi letteralmente le fondamenta sui “coloniali”, a partire dallo zucchero, a loro volta frutto del sudore degli schiavi (di quelli sopravvissuti ai viaggi transatlantici – mortalità fino al 24% – o semplicemente alla prima infanzia: nella Giamaica del XVII secolo superava l’anno di vita un figlio di schiava su dieci).
La Gran Bretagna è ai primi posti nella cronologia dell’abolizione, preceduta solo dalla Danimarca (e, a ruota, dalla Francia rivoluzionaria, fino a ripensamento del Napoleone console-dittatore). Abolì la tratta “già” nel 1807, e nel 1833 anche la schiavitù. E qui da decenni era all’opera «uno dei più grandi movimenti di massa» della storia, quello abolizionista, come volentieri riconosce l’autore del libro che ho tra le mani. Eppure, proprio in questo stesso Paese, soltanto adesso il suo libro, Capitalism and Slavery, è diventato un best seller. A più di ottant’anni dalla sua redazione. L’autore è (fu) Eric Williams, il padre della patria della Repubblica di Trinidad e Tobago. All’epoca il manoscritto fu rifiutato da un editore inglese “di sinistra” (in seguito fu pubblicato negli Usa; è stato portato in Italia, nel 1972, da Laterza).
Il vulnus di Williams alla «tradizione britannica» (così suonava la motivazione del rifiuto di allora) era di dimostrare, con un’impressionante mole di dati alla mano, che la fine della schiavitù ha meno a che vedere con l’idealismo umanitario che con le mutate convenienze economiche. Così come, «data la scarsità di popolazione nell’Europa del Cinquecento i lavoratori liberi necessari per le coltivazioni fondamentali dello zucchero, del tabacco e del cotone nel Nuovo Mondo non potevano essere disponibili in quantità sufficiente per una produzione su larga scala» – e venne avviata la pratica schiavistica –, allo stesso modo giunse il momento di constatare che, come aveva già anticipato Adam Smith, il costo del lavoro schiavo è per il proprietario, a conti fatti, più alto del lavoro salariato. Realtà che s’intreccia, nell’analisi di Williams, con la complessa storia dei rapporti tra madrepatria e piantatori (bianchi) di Barbados, Giamaica e altre West Indies, con la lotta tra protezionisti e liberoscambisti, e con gli interessi economici imperiali che slittavano a est: l’India.
E non poco incise, per esempio, l’industrializzazione della raffinazione della barbabietola da zucchero, «fino alla sua più grande vittoria, nel 1848, quando liberò gli schiavi delle piantagioni di zucchero delle colonie francesi».
Può apparirci, oggi, quasi scontato che la fine della schiavitù dipenda in gran parte da fattori economici. E non nel solo caso britannico (il libro lo chiarisce: «Ciò che ha caratterizzato il capitalismo inglese è stato tipico anche di quello francese»). Ma Eric Williams documentò l’assunto a fondo. E in anni in cui nessuno, soprattutto nessun rappresentante delle istituzioni, pensava ad abbattere le statue degli schiavisti.
Pier Maria Mazzola, giornalista e traduttore.