Articolo
Le fedi dell’Africa
Anno XXIII, n. 1 Giugno 2023 - di Pier Maria Mazola
Nel suo «pellegrinaggio» in Repubblica democratica Congo e Sud Sudan all’inizio di febbraio, Francesco ha toccato soprattutto gli urgenti temi sociopolitici dell’Africa d’oggi, senza aprire un altro capitolo, più “religioso”, che ha comunque il suo peso. Questo si legge, per esempio, su una pagina social di informazione locale camerunese: «Molti cristiani, direi almeno l’80 per cento, non sanno dove realmente stanno. “Di giorno” combattono, in chiesa e sui social, i custodi della tradizione e, curiosamente, “di notte” vanno da loro per una protezione. A cominciare da pastori e preti».
Lo stile di evangelizzazione pre-conciliare (“se credi in Cristo brucia i ponti con il passato”) deve aver lasciato il segno, a giudicare dalla dicotomia interiore che tanti sperimentano.
Eppure la riflessione sulla “inculturazione”, l’incarnazione del messaggio di Cristo in una data cultura, non manca. È anzi con essa che la teologia africana è nata. Dobbiamo ricordare almeno Des prêtres noirs s’interrogent, uscito nel 1956: prima del Concilio Vaticano II. Nel libro (mai edito in Italia), una dozzina di giovani preti africani metteva sul tappeto temi come “liturgia romana e negritudine” o “il patto di sangue e la comunione alimentare, germi di attesa della comunione eucaristica”. Nel primo capitolo Vincent Mulago portava il caso della «buona cristiana» che «non può fare a meno di certi riti che pur sa essere vietati sub gravi. Minacce e discorsi possono strapparle qualche promessa, ma alla prossima gravidanza, per esempio, ritornerà alle sue “superstizioni”. Allora, che fare?». Mulago non offre una risposta puntuale, ma da un lato rimanda a principi generali ormai introiettati dal magistero (non distruggere la «selva lussureggiante» ma «innestare nuovi sani virgulti sui vecchi ceppi»: enciclica Evangelii praecones di Pio XII) e, dall’altro, insiste sullo studio delle culture locali, compito eminente del «prete indigeno che, meglio di chiunque altro, conosce il suo popolo e troverà i modi di far penetrare la fede nella sua anima».
Senza approfondimenti contestualizzati, infatti, come stabilire se i «riti» della «buona cristiana» sono “apostasia” o ricerca di sicurezza psicosociale? Discorso simile per le figure-chiave degli antenati. Quello che si presta loro è un culto concorrente alla “adorazione” del Dio cristiano o è “venerazione”, analoga a quella tributata ai santi? E, d’altra parte, può la Chiesa accogliere tutto ciò che è africano solo per il suo valore “culturale”? «Né l’Africa né la Chiesa possono ormai restare tali e quali erano prima dell’incontro [tra loro]», scriveva un teologo come Engelbert Mveng. «L’Africa non può più essere solo il tempio degli stregoni, dei feticci, delle società segrete, dei riti orridi (…) Un dialogo del genere è molto esigente per l’Africa, perché significa chiamare in giudizio la nostra eredità spirituale di fronte a Dio» (Identità africana e cristianesimo, SEI, 1990).
Il dibattito prosegue su molti altri libri. Limitandoci ad alcuni in italiano: La mia fede di africano di Jean-Marc Ela, che fece entrare la teologia dell’inculturazione in una teologia africana della liberazione (EDB, 1987); l’irrinunciabile Oltre la magia di John S. Mbiti, per farsi un’idea solida della religione africana (SEI, 1992); Percorsi di teologia africana curato da Rosino Gibellini, sorta di verifica del cammino fatto dopo Des prêtres… E, per un approccio serio e accessibile a come l’anima africana legge Cristo, c’è sempre Gesù d’Africa di Diane B. Stinton (EMI, 2007).
Ma poi irrompe, con la forza della testimonianza diretta, Confessioni di un animista (EMI, 2019). L’autore, gesuita, muove dalle memorie della sua infanzia nigeriana, quando osservava la madre (cattolica) nelle sue funzioni di sacerdotessa di Olokun, la dea del mare. Là crebbe Agbonkhianmeghe Orobator, che si sarebbe poi «convertito al cristianesimo» all’età di 16 anni. Padre Orobator oggi non vede la religione tradizionale in stretta alternativa al cristianesimo o all’islam: essa «è il suolo o la base su cui le altre due impiantano le loro pretese sull’anima africana (…) Io scelgo di considerare come una sana forma di convivenza e tolleranza religiosa ciò che altri hanno deriso giudicandola una tendenza sincretistica».
Pier Maria Mazola, giornalista e traduttore.