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La Porta dei bambini, porta di accoglienza
Anno XXXIV, n. 2 Novembre 2024 - di Chiara Michelon
Pochi mesi fa abbiamo ricevuto una mail con una richiesta di liberatoria per l’uso dell’immagine della Porta di Lampedusa. E così abbiamo scoperto la storia della maestra Giulietta e della sua classe.
Quella mattina d’autunno, nella scuola Ezio Giacich di Monfalcone, in provincia di Gorizia, la maestra Giulietta voleva celebrare, insieme ai suoi bambini e alle sue bambine di quinta elementare, una giornata importante: la Giornata della memoria e dell’accoglienza. Era il 3 ottobre di un anno fa e così, per rendere il momento più partecipato, maestra e classe si sono messi a cercare stimoli creativi in rete. Quando la Porta d’Europa, costruita da Mimmo Paladino e stagliata tra il cielo e il mare di Lampedusa, è apparsa sullo schermo, la classe si è sollevata: “Ferma, ferma, maestra!” Lei si è girata verso di loro e ha visto una miriade di occhietti vivaci che brillavano e un’onda di pensieri che arrivava alta e promettente dai banchi. I miei incredibili bambini, ha pensato.
La Porta di Lampedusa, voluta da Amani per non dimenticare le migliaia di migranti che, ieri come oggi, si affidano al mare per raggiungere l’Europa nella disperata ricerca di un futuro migliore, agli occhi degli alunni della classe aveva la potenza di un simbolo, per questo tutti insieme hanno chiesto di poter celebrare la Giornata dell’accoglienza riproducendola concretamente nella loro scuola. Una vera impresa, a cui la maestra Giulietta non ha voluto – né potuto in realtà, data la determinazione dei suoi cari bambini – opporsi e che ha condiviso con noi poco prima dell’estate appena trascorsa. Una buona quantità di solido cartoncino giallo per la struttura di base e poi elementi riciclati, senza sprecare nulla, senza plastiche e rispettando l’ambiente, attaccati con la colla a caldo per le decorazioni.
Tutto questo accadeva alla fine del corridoio dell’istituto comprensivo Ezio Giacich di Monfalcone, una scuola di confine, in una città di confine e punto di transito storico con l’Europa dell’est. Niente accade per caso: la scelta di erigere una porta dell’accoglienza in una zona come questa assumeva un valore ancor più grande. Monfalcone, con il suo 30% di abitanti residenti stranieri, per la metà provenienti dal Bangladesh e attivi come maestranze alla Fincantieri, è una città fortemente multietnica, salita agli onori della cronaca come laboratorio di incontro dove si sposano in un matrimonio non facile diffidenza e integrazione. Ma non parlate di diffidenza ai bambini e alle bambine di Monfalcone, che è una cosa tutta adulta: loro ormai da qualche generazione giocano in cortile con gli amici rumeni, croati, macedoni, bosniaci e, ovviamente, bengalesi. Mica si fanno domande, mica guardano se a cena mangi il biryani o il gulash, se sei cattolico, ortodosso o musulmano. Però alle porte fanno caso: quelle chiuse non gli piacciono, se non per curiosarci dentro.
Quando ti avvicini alla Porta dell’accoglienza vedi applicati scarpe, piatti rotti, numeri, fili: puoi immaginare il loro significato ma la cosa più bella è ascoltarlo dalla voce dei bambini e delle bambine, che con orgoglio hanno presentato a tutte le classi dell’istituto e persino agli adulti e ad alcuni studenti neodiplomati la loro opera d’arte. Cosa sono quei numeri? E le mani? “Il numero di telefono della mamma che li aspettava a casa, il numero delle persone disperse in mare, uomini, donne e bambini saliti sulla barca… Le mani sono quelle che ti accolgono, sono tese verso di te, scendono dal cielo e salgono dal mare, i piatti rotti sono la fame e la mancanza…”. “Lì ci sono le paure, le armi da fuoco, le cose brutte, e qui invece le speranze, c’è la famiglia, la fabbrica per il lavoro…”. Resteresti ad ascoltarli per ore, quei bambini così attenti e sensibili, che con il loro racconto e una fantasia per niente distante dalla realtà dei fatti hanno stimolato nel pubblico, adulto e bambino, una riflessione profonda e toccante che parla di pace, di rispetto, di accoglienza.
In basso a destra, nell’angolo di questa grande Porta, c’è uno specchio. Si trova ad altezza di bambino e ti chiama a sé, ti interpella: vuole che il passante o lo spettatore si fermi e ci si guardi dentro, che si possa specchiare nelle proprie paure e nelle proprie speranze. Come a dire: e se il migrante fossi tu? Ci hai mai pensato? Guardati. Allora la tua concentrazione cresce, ti fai ancora più vicino alla porta e capisci che quell’alone rosso dove il tuo sguardo si sofferma viene da un intrico di fili: sono i fili di un gomitolo di lana rossa che la maestra Giulietta aveva portato a scuola, nei giorni della decorazione, e che ha catturato l’attenzione artistica di uno dei suoi alunni. “Questi fili hanno il colore del sangue, ma noi li dispiegheremo e li strapperemo, per strappare via la sofferenza dei migranti”. È una Porta così ricca che nemmeno nelle fiabe ne esistono di simili. Più di tutto è ricca di amore, che altro non è che la base di ogni tipo di accoglienza. Allora grazie, bambini e bambine di Monfalcone, per la vostra intelligenza e per la dolcezza del vostro sguardo e grazie alla maestra Giulietta che sta insegnando a fabbricare l’amore a coloro che saranno il nostro futuro. Abbiamo tanto bisogno di porte come questa: porte aperte, da oltrepassare insieme, mano nella mano, mentre qualcuno dall’altra parte è pronto ad abbracciarti.
Chiara Michelon, crittrice e volontaria di Amani dal 1999.