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La lezione di Wangari
Anno XXXIV, n. 1 Maggio 2024 - di Tommaso Perrone
La prima africana Nobel per la pace ha mostrato al continente la sua vera ricchezza
La prima donna dell’Africa centrale e orientale che è riuscita a laurearsi e a diventare professoressa in Kenya. La fondatrice di un movimento, il Green Belt Movement, che dal 1977 a oggi ha piantato decine di milioni di alberi. La prima donna dell’intero continente a ricevere il premio Nobel per la Pace nel 2004 per “il suo contributo per lo sviluppo sostenibile, la democrazia e la pace”. La biologa Wangari Maathai – scomparsa nel 2011 – è un’icona del nostro tempo. Un tempo in cui le questioni ambientale e climatica sono diventate sfide che non si possono più evitare se si vuole garantire un futuro radioso alla nostra specie. Se oggi Maathai fosse tra noi, probabilmente sarebbe la figura di riferimento per tutte e tutti coloro che lottano per il bene comune, ma sarebbe anche quel tipo di riferimento necessario a leader globali per spronarli ad agire meglio, di più e più in fretta. E invece no, l’unica cosa che possiamo fare è celebrare i vent’anni trascorsi dal riconoscimento che l’ha iscritta ufficialmente nella lista delle persone che hanno fatto la storia del Ventesimo secolo. Maathai ha aperto la strada a migliaia di altre donne che in lei si sono riconosciute e che grazie a lei hanno avuto la forza di lottare per ampliare la sfera dei propri diritti. Una donna che è stata anche protagonista del progresso e della democrazia in Kenya. Grazie al movimento da lei creato nel 1977, il gesto della piantumazione è diventato sinonimo di empowerment femminile, di solidarietà internazionale, di democrazia. Quindi di pace.
La sua eredità è dunque tangibile e sta contribuendo a sviluppare anche l’economia del continente in chiave sostenibile. Basti pensare al mega progetto della Grande muraglia verde, cioè la realizzazione di una grande striscia di vegetazione lunga più di settemila chilometri nel Sahel, da Dakar, in Senegal, a Gibuti. Fino ad arrivare all’energia, uno dei settori dove il margine di miglioramento è più ampio. In Africa, infatti, ancora troppe persone vivono in condizioni di povertà estrema e degrado ambientale, e una delle cause è proprio il mancato accesso all’elettricità. Nel mondo “solo” il 10 per cento delle persone non ha la possibilità di accendere la luce di casa. Ma di questo 10 per cento, l’80 per cento si trova nel continente africano: stiamo parlando di oltre mezzo miliardo di persone. Ecco perché è necessario cercare di colmare questo gap nel più breve tempo possibile, per aiutare interi popoli a uscire dalla povertà energetica e, quindi, economica. Ma per farlo, il ruolo delle rinnovabili deve essere centrale in epoca di crisi climatica. Negli ultimi vent’anni, le fonti rinnovabili hanno registrato una crescita notevole in Africa, sia in termini assoluti che relativi. Tra il 2000 e il 2018, la produzione rinnovabile di energia primaria è aumentata del 96 per cento, passando da 0,7 a 1,4 miliardi di tonnellate equivalenti di petrolio (tep) su un totale di 5,6 miliardi di tep, secondo i dati della Banca Mondiale. Mentre la produzione di elettricità pulita è aumentata del 113 per cento nello stesso arco temporale, arrivando a coprire circa un terzo della domanda. Ottimi risultati, ma non ancora abbastanza. E non solo perché, come dicevamo, ancora troppe persone non hanno accesso all’elettricità, ma anche perché la dipendenza dai combustibili fossili, come carbone, petrolio e gas, è molto elevata e la tentazione di usare queste risorse come scorciatoia per accelerare lo sviluppo economico è troppo forte. E a fungere da “sirene” siamo anche noi, in quanto occidentali e in quanto italiani. Da poco, infatti, il nostro governo ha varato il Piano Mattei – un piano strategico quadriennale da 5,5 miliardi di euro di investimenti – con una cerimonia che ha visto la presenza a Roma di decine di capi di stato e di governo del continente africano. Tra gli obiettivi, si legge nel piano, c’è la volontà di «rendere l’Italia un hub energetico, un vero e proprio ponte tra l’Europa e l’Africa. Gli interventi avranno al centro il nesso clima-energia, punteranno a rafforzare l’efficienza energetica e l’impiego di energie rinnovabili, con azioni volte ad accelerare la transizione dei sistemi elettrici, in particolare per la generazione elettrica da fonti rinnovabili e le infrastrutture di trasmissione e distribuzione». Parole lungimiranti, sulla carta, se non fosse che – nei fatti – la situazione appare in modo molto diverso. La sostanza vede la presidente Meloni stringere accordi di natura fossile insieme ai dirigenti di Eni, la cui partecipazione statale rimane superiore al 30 per cento. In particolare, il protagonista di queste intese con diversi paesi africani è il gas, utili a diversificare il mix energetico italiano e investire nella sicurezza nazionale (come dice apertamente il nome del ministero dell’Ambiente) in un’epoca di rinnovato conflitto alle porte d’Europa. Una situazione che ha spinto lo stesso presidente dell’Unione africana, Moussa Faki, a sottolineare come l’Africa si aspetti un cambiamento di paradigma – fuori dalla logica coloniale e paternalistica – per un nuovo modello di partenariato.
Se la sicurezza nazionale ed energetica dell’Italia e degli altri paesi europei passa dall’Africa, ha continuato Faki rivolgendosi a Meloni durante il discorso nelle aule del parlamento, «avremmo auspicato di essere consultati» prima che il Piano Mattei venisse presentato alla vigilia del G7 a presidenza italiana. Nonostante questo, Faki ha comunque ribadito che si auspica che le promesse di investimento e sviluppo in chiave sostenibile vengano rispettate e che si possa presto passare ai fatti per arginare e prevenire le migrazioni dovute alla crisi climatica, a un debito insostenibile e all’instabilità politica, grazie a una strategia che possa trasformare la povertà in prosperità, soprattutto nelle aree più deboli del continente. Proprio come avrebbe voluto Wangari Maathai.
Tommaso Perrone, giornalista e direttore di LifeGate.