Editoriale
la Guerra e la Speranza
Anno XXIII, n. 2 Novembre 2023 - di Pier Maria Mazzola
«Vecchio mondo, giovane Africa». «Il mondo sa diventando più africano».
Sono alcuni titoli di una serie di servizi che il New York Times l’autunno scorso ha dedicato al continente africano, corredati da belle foto sprizzanti energia e vigore che sono in sintonia con quelle del calendario 2024 di Amani. Non per narrare, dunque, di cataclismi, guerre, leader impresentabili e altre miserie, o per misurare la quota di speranza che il continente può permettersi – ricordiamo le storiche copertine dell’Economist, altalenanti fra The hopeless continent (2000) e Africa rising (2011), Aspiring Africa (2013) e, qualche settimana fa, Africa lose faith in democracy e Africa’s Kim Jong Un (un ritratto dell’eritreo Afwerki). Questa volta l’attenzione è puntata sulla crescita demografica, rilevante non tanto per la percentuale crescente di africani sulla popolazione mondiale quanto, soprattutto, per la loro giovane età – «entro il 2040, il continente conterà due bambini su cinque nati sul pianeta». Fenomeno già in atto, più come un bradisismo che un terremoto, e che si sta traducendo in una “conquista” culturale – musica e arti, sport, moda, glamour, innovazione… – che ha portato l’african style alla ribalta. E, possiamo ormai dirlo, non come una meteora. «Ci insultavano con ogni epiteto», confida uno zimbabwano cresciuto a Londra e ora dirigente di un’azienda collegata ad Apple. «Oggi, “africano” è un distintivo di orgoglio. Storicamente, l’immagine era quella che la gente vedeva in tivù: bambini affamati, kwashiorkor e mosche. Adesso ti dicono che muoiono dalla voglia di venire a Città del Capo, a Mombasa, a Zanzibar… Essere africani è cool».
Questo vale per la gioventù vincente. E quelli che non ce la fanno? È sempre irrisolta, per esempio, la problematica dei giovani con un livello di istruzione sempre più elevato ma povero di sbocchi. «Entrano potenzialmente ogni anno 20 milioni di africani nel mercato del lavoro», ricorda Edward Paice, direttore dell’Africa Research Institute di Londra, «mentre sono circa 3 milioni i nuovi posti di lavoro dignitosi». «Comunitari e individualisti allo stesso tempo, forse come nessun’altra civiltà riesce ad essere davvero», scrive, dal suo osservatorio, Mario Giro in Global Africa, «i giovani africani proseguono il loro dolente cammino di speranza, superando in silenzio ogni avversità. Di fronte a ciò, l’unico atteggiamento valido da tenere è soltanto uno: il rispetto».
Quando si vanno a vedere le cose da vicino, distinguo e sfumature sono sempre necessari. Rimane il dato che le nuove generazioni appaiono portatrici di uno sguardo e di una freschezza nuovi. Non solo a beneficio loro e del loro ambiente ma… del pianeta. «Il boom della gioventù in Africa», annuncia un altro di quei titoli del New York Times, «cambierà il mondo».
***
Il mondo… Ma il mondo intanto non è più lo stesso. La folata di speranza che investe su una nuova narrazione pare dover già ricadere. Perché il mondo, oggi, è in balia della violenza. Violenza che in realtà non ha mai scarseggiato nei nostri anni, anche sotto forma di guerra. E l’Africa ne sa qualcosa. Ma adesso i conflitti in Ucraina e in Palestina, oltre che uccidere civili e rendere profughi i sopravvissuti, distruggere abitazioni e infrastrutture, devastare l’ambiente, demoliscono il diritto bellico, scavano pozzi senza fondo di nuovo odio, arrivano a far rimpiangere l’occhio per occhio (che in effetti nacque come deterrente alla vendetta senza limiti). Ci avvertono che l’ordine mondiale postbellico, il quale, per quanto discutibile, ottemperava grosso modo a regole di pace (almeno per scongiurare l’irreparabile), non c’è più. O è a rischio, se chiunque creda di avere una buona ragione “storica” per attaccare il vicino (e, grattando nella storia e fermandosi alla data che più conviene, di ragioni “buone” ce n’è per tutti) lo fa. E lo fa senza badare a inermi, a ospedali, a mercati… Con l’Onu all’angolo, ostaggio dei suoi propri meccanismi. Stagione di anomia.
Non solo. L’opinione pubblica non è un fenomeno nato oggi – ne ricordiamo il ruolo nel metter fine alla guerra del Vietnam –, e oggi il suo potenziale è ancora superiore, per la sua possibilità di esprimersi anche sui social media, oltre che con i sondaggi di opinione e nelle tradizionali manifestazioni di piazza. Ma piacerebbe udire prese di parola maggiormente dettate da una inequivocabile sete di pace, anziché veder soffiare sul fuoco fino a riattivare antichi spettri come l’antisemitismo.
Ottocento anni fa esatti, un ex militare dava vita, memore di un recente pellegrinaggio in Terra Santa, al primo presepio della storia. Un presepio vivente che lui, Giovanni detto Francesco, vedeva ben ambientato in una grotta di Greccio, luogo “ricco di povertà” che gli evocava Betlemme: là dov’era nato il «principe della pace» preannunciato dal profeta, mentre «ogni calzatura di soldato che marciava rimbombando e ogni mantello intriso di sangue saranno bruciati» (Is 9,1-6). Visione di speranza che – nel nostro mondo in guerra, con guerre che oggi ci toccano dentro come non accadeva forse da molto – sembra oggi rimbalzare di nuovo più lontano.
È il nostro Natale 2023, che pare rievocare più la strage degli innocenti che il primo vagito dell’uomo-Dio. Ma la speranza non è (solo) un sentimento. In ebraico è detta anche tikvà, cioè corda: «Il senso di essere legato a qualcuno e qualcosa che non lascia soli. Non sempre la speranza mostra la sua fibra di canapa ritorta, resistente. Però è bello sapere che essa ha quella tenacia d’origine» (Erri De Luca).
Pier Maria Mazzola, giornalista e traduttore.