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La guerra contro i bambini
In alcuni Paesi africani piccoli e adolescenti sono il primo bersaglio della violenza armata, per farne degli schiavi o a scopo di riscatto.
Anno XXI, n. 1 Giugno 2021 - di Pietro Veronese
Alla fine di maggio lo hanno fatto ancora. È successo nella piccola città di Tegina, nella Nigeria occidentale. Verso le tre del pomeriggio, d’improvviso, una ventina di motociclette sono entrate nel recinto della scuola. Il gruppo ha fatto irruzione sparando all’impazzata, cosicché nei paraggi chi ha potuto si è barricato in casa, lasciando campo libero. I banditi hanno circondato gli scolari, che erano in attesa delle lezioni pomeridiane. Poi, facendo rombare i motori, gridando e brandendo le armi automatiche, li hanno trascinati via come bestiame razziato. Quando la polvere si è posata ed è tornato il silenzio, all’appello mancavano circa 150 studenti tra i sette e i quindici anni di età. Undici di loro, ha riferito la portavoce del governatore locale, sono stati lasciati liberi poco lontano perché «erano troppo piccoli e facevano fatica a camminare».
In più punti dell’Africa, in paesi maggiormente afflitti da una grave instabilità e percorsi da bande armate di varia affiliazione, si combatte una guerra contro i bambini. Sappiamo che ovunque ci sia un conflitto le persone più fragili, i bambini soprattutto, sono le prime vittime. Ma nei casi di cui vogliamo parlare qui, le cose stanno diversamente: il male fatto a bambini e adolescenti non è un “danno collaterale”, come usano dire i militari nel loro gergo, bensì il primo obiettivo, il bersaglio prescelto. È una storia che viene purtroppo da lontano, cominciata almeno negli anni Ottanta e Novanta del secolo corso con il reclutamento forzato dei bambini, rapiti alle famiglie per farne dei combattenti o, quando si trattava di ragazze, delle schiave domestiche e sessuali. È accaduto per esempio in Liberia, in Sierra Leone, in Uganda.
Poi, nell’ultimo decennio, l’epicentro di questa piaga è diventato la Nigeria. Principale accusato, il movimento armato islamista Boko Haram, che insanguina il nord del Paese, anche se come stiamo per vedere le cose sono oggi più complesse. I rapimenti in massa della Nigeria – più tristemente famoso di tutti quello di Chibok, nel 2014, con 276 collegiali portate via a mano armata nella notte – hanno colpito l’opinione pubblica mondiale. Oggi l’attenzione si è spostata altrove, eppure il fenomeno impazza: solo da dicembre a oggi ce ne sono stati almeno sei, con un totale di giovani rapiti non molto inferiore al migliaio. Il modello nigeriano ha evidentemente avuto successo e nella rivolta islamista che sta attanagliando il nord del Mozambico, a molte migliaia di chilometri di distanza, in tutt’altra regione del continente, le associazioni umanitarie segnalano casi analoghi.
Ricerche recenti, opera di centri studi sia nigeriani che internazionali, tendono oggi a ridimensionare il ruolo di Boko Haram. Anche nel sequestro di massa di Chibok, l’intervento dei miliziani fondamentalisti avvenne solo in un secondo tempo, quando i rapitori, dei criminali comuni, consegnarono loro le giovanissime prigioniere, non sapendo bene che farne. E nell’ultimo episodio di Tegina, l’istituto presa di mira è una scuola musulmana e non cristiana. Più della strisciante guerra civile e religiosa che infierisce in forma sparsa sull’intero, vastissimo settentrione nigeriano, il primo responsabile dei rapimenti di massa sembra essere la fiorente industria dei sequestri, una piaga che il Paese conosce da decenni e che la crescente povertà e la diffusa impunità hanno fatto aumentare a dismisura. Invece di prendere di mira i vip, come accadeva in precedenza, le bande privilegiano ormai i grandi numeri e la povera gente. Scuole e collegi – isolati, quasi del tutto privi di protezione, in contesti regionali già a bassissima sicurezza – sono bersagli che quasi non presentano rischi. Per loro stessa ammissione, le autorità locali o federali finiscono per pagare. Molti le sospettano di essere in combutta con i criminali, con cui poi si spartiscono il bottino dei riscatti.
Negli anni, il rapimento di Chibok è rimasto il più celebre. Non solo perché è stato il più grande di tutti, con un numero di rapite mai eguagliato; ma anche perché divenne subito oggetto di una campagna internazionale, #BringBackOurGirls, cui aderirono l’allora first lady americana Michelle Obama e numerosissime altre autorità, compreso il Papa. Su quel fatto sono stati girati documentari e scritti libri, l’ultimo dei quali uscito da poco in Gran Bretagna, con molte testimonianze delle vittime. L’attualità è legata anche al fatto che oltre cento ragazze mancano ancora all’appello. Le ragazze si comportarono con coraggio. Malgrado le minacce, le percosse, la fame, organizzarono azioni di disobbedienza. In maggioranza cristiane, rifiutarono, salvo una trentina, di convertirsi forzatamente all’Islam e di sposare i loro sequestratori. Alcune decine riuscirono a fuggire a rischio della vita. Una di loro, Naomi Adamu, ventenne, usò due quaderni di scuola per tenere segretamente un diario, ora pubblicato. È una straordinaria testimonianza di resistenza: «Ero forte», ha detto Naomi, «perché ero arrabbiata».
Pietro Veronese, giornalista, segue da trent’anni le vicende africane.