Articolo
Il continente dell’accoglienza
Una storia di generosità, resilienza e lotta
Anno XXXIV, n. 2 Novembre 2024 - di Fabrizio Floris
Il tema dell’accoglienza dei migranti e dei rifugiati è al centro del dibattito politico nei Paesi che si trovano nelle principali frontiere del mondo: Messico-Stati Uniti, Africa-Europa, Africa-Arabia, Asia centrale-Europa, Sudest asiatico-Australia. Un movimento crescente di persone si è spostato negli ultimi decenni per motivi economici, umanitari e di sopravvivenza, ma il primo dato importante da considerare secondo l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM) è che «la stragrande maggioranza delle persone continua a vivere nei Paesi in cui è nata; solo una su 30 è un migrante: 281 milioni di migranti internazionali nel mondo, il che equivale al 3,6 percento della popolazione mondiale (128 milioni in più rispetto al 1990)». Un secondo elemento da sottolineare è che la maggioranza delle persone che si spostano restano nelle regioni limitrofe alle aree di provenienza. In Africa, ad esempio, la maggior parte della migrazione internazionale avviene all’interno della regione. Non è semplice affrontare la sfida dell’accoglienza per Paesi a basso reddito con già grandi difficoltà interne. L’accoglienza, in particolare dei rifugiati, in Africa è una questione profondamente complessa che mescola ospitalità, tensioni economiche, sociali e infrastrutturali.
L’Africa ospita alcune delle più grandi e durature crisi dei rifugiati al mondo. Secondo l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR), in Africa si trova oltre il 30% della popolazione mondiale in fuga. Nel 2023, sono stati registrati circa 7,5 milioni di nuovi profughi e richiedenti asilo in tutto il continente, provenienti principalmente da Sud Sudan, Somalia, Repubblica Democratica del Congo (RDC), Eritrea, Sudan e Burundi. Questi numeri sono impressionanti, soprattutto se si considera che il numero totale di sfollati in Africa supera i 30 milioni.
Paesi come Uganda, Etiopia, Kenya e Sudan ne ospitano la maggior parte. L’Uganda, in particolare, con le sue politiche progressiste, accoglie oltre 1,5 milioni di persone: il numero più alto di rifugiati ospitati da un singolo Paese africano e il terzo a livello globale. Altri importanti Paesi ospitanti sono il Ciad (680.000 profughi) e l’Etiopia (circa 900.000). Questi, pur affrontando grosse sfide economiche e di sviluppo, hanno accolto i rifugiati, riflettendo una tradizione di solidarietà e comunità tipica della storia del continente.
L’ospitalità nelle società africane è più di una norma culturale; è spesso vista come un dovere morale profondamente radicato nelle pratiche tradizionali. Molte culture africane sostengono il principio di accogliere gli estranei, offrire rifugio a chi è in difficoltà e integrare questi individui nella comunità. Questo ethos risale ai tempi precoloniali, quando le persone che fuggivano da guerre, carestie o persecuzioni trovavano sicurezza in villaggi o clan vicini. Oggi questo spirito di ospitalità continua, in particolare nelle aree rurali dove i rifugiati, più che essere confinati in campi formali, spesso si integrano nelle comunità.
Un esempio, in questo senso, è la politica dell’Uganda. Il Refugees Act ugandese del 2016 garantisce ai rifugiati il diritto al lavoro, la libertà di movimento e l’accesso a servizi pubblici come la sanità e l’istruzione, nonché l’accesso a terre da coltivare, così da contribuire all’economia locale. Sono politiche che hanno trasformato l’Uganda in un modello per l’accoglienza, nonostante il Paese si trovi ad affrontare diversi problemi interni.
Non mancano, però, le tensioni con le popolazioni locali. In varie occasioni vi sono stati scontri violenti perché contadini e pastori locali percepiscono i profughi come destinatari di un trattamento preferenziale nella distribuzione degli aiuti, generando risentimento. Su questo governi e Agenzie internazionali hanno lavorato per creare servizi inclusivi per tutti i residenti del territorio.
Resta aperta la questione dei campi. Infatti, se il modello dell’Uganda incoraggia i rifugiati a diventare autosufficienti, altri paesi come il Kenya e la Tanzania li mantengono confinati nei campi, limitando la loro capacità di integrarsi e contribuire economicamente. In questi casi, le persone sono totalmente dipendenti dagli aiuti umanitari e i campi diventano spazio di isolamento sociale. Il campo è un luogo “in sospeso”, modellato esclusivamente sul concetto di “salvare le vite”, che prevede anche uno sforzo teso a ridurre al minimo l’impatto dei rifugiati sul luogo ospitante: è nel contesto senza farne parte. È una sorta di extraterritorialità “transitoria”. Un agglomerato a forma di città, ma spogliato dei diritti di cittadinanza, per gli urbanisti una città nuda. Allo stesso tempo, la presenza di questi campi ha rimodellato le economie locali, con alcuni rifugiati che hanno avviato attività commerciali e creato mercati all’interno dei campi, contribuendo al commercio regionale.
Nonostante le complessità associate all’ospitalità, i Paesi africani continuano a dimostrare un’incredibile resilienza. La presenza di rifugiati ha spesso portato a innovazioni nell’assistenza sanitaria, nell’istruzione e nei mezzi di sostentamento di cui beneficiano sia i profufhi che le comunità ospitanti. In alcune regioni gli aiuti internazionali hanno migliorato le infrastrutture locali, tra cui strade, scuole e ospedali, che servono anche alle popolazioni locali. I rifugiati col tempo non sono stati solo destinatari passivi di aiuti, ma agenti di cambiamento: hanno fondato imprese, scuole e organizzazioni comunitarie, contribuendo alla vita economica e sociale. Si può sostenere che l’accoglienza in Africa è una storia di generosità, resilienza e lotta. I Paesi africani, nonostante le loro stesse sfide, hanno dimostrato un profondo impegno nell’offrire rifugio a milioni di persone sfollate. Le lezioni di solidarietà e ospitalità che il continente offre al mondo dovrebbero servire come promemoria della nostra umanità condivisa.
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Se una notte d’autunno una studentessa keniana
Naomi è una brillante studentessa keniana, ha ottenuto ottimi risultati a scuola e gli insegnanti la spingono ad iscriversi all’università e dato che il papà aveva studiato in Italia, per affinità elettive, anche lei sceglie il Bel Paese. Si iscrive sul portale di pre-iscrizione “Universitaly”, i suoi titoli sono ritenuti idonei. Poi all’Università, anche qui tutto bene, frequenta online il corso di italiano e supera positivamente l’esame di lingua. Tutto procede finché non incontra la burocrazia italiana. Per la borsa di studio e la mensa richiedono documenti che nel suo Paese non esistono o sono difficilmente reperibili (come l’ISEE, ad esempio), quindi per iscriversi deve pagare la tariffa massima senza accedere a nessuna agevolazione mentre la sua famiglia ha un reddito di pura sussistenza. Poi su tutto si abbatte la richiesta del permesso di soggiorno: un iter infinito di documenti da tradurre in italiano che scoraggia anche i più temerari (persino i ricercatori assunti dal Politecnico di Torino hanno problemi con i permessi). In un Paese che ha bisogno di giovani, con una denatalità significativa, servirebbero forme di incentivo per chi sceglie l’Italia per studiare (la chiamano migrazione regolare di qualità) e invece le amministrazioni sembrano andare nella direzione opposta. E così, in una notte d’autunno, una studentessa impara che con la burocrazia italiana il meglio che ci si può aspettare è di evitare il peggio. Capisce che è meglio non mescolare i suoi sogni con chi non ne ha mai realizzato uno suo e che, alla fine, il mondo oltre la penisola è pieno di gente che non vede l’ora di studiare e vuole vivere.
Fabrizio Floris, ricercatore, docente di Sociologia dello Sviluppo e socio di Amani.