Articolo
A ognuno la sua magia
La cronaca del "Trip Day", come un'opera dadaista e surreale, rappresenta al meglio le emozioni del Campi di incontro.
Anno XXIII, n. 2 Novembre 2023 - di Ettore Lamorgese
Era il 25 agosto, pochi giorni prima del nostro rientro in Italia. Per un degno saluto si era optato per la tradizionale gita di fine campo. Gli educatori avevano coinvolto i bambini nella scelta della destinazione e la loro proposta era stata: “Prendiamo il treno!”.
C’è infatti una nuova linea che da Nairobi si spinge verso nord-ovest e i bambini erano molto incuriositi dalla possibilità di salire su un treno per la prima volta.
Optiamo dunque per portarli in treno all’“Hell’s Gate Park”, con le sue bellissime piscine termali. Alle 6:45 del mattino partiamo dalla casa di Anita con un autobus (il celebre “matatu”) che avrebbe portato noi volontari e le ragazze alla stazione di Ngong, dove avevamo appuntamento con tutti gli altri. Stipati in 40 dentro il piccolo matatu salutiamo quel che resta del sonno e la casa che per due settimane ci aveva accolto, a ritmo di musica pop africana ad altissimo volume, tra canti e urla delle ragazze esaltate per la gita. Con un’ora e mezza di anticipo ci ritroviamo tutti all’ingresso dell’imponente stazione di Ngong, una cattedrale della modernità nel deserto.
Contati i bambini e consegnati i biglietti saliamo finalmente sul treno. È difficile esprimere la meraviglia disegnata nei loro occhi una volta partiti. Col naso schiacciato sul finestrino si scambiavano esclamazioni per indicare ogni oggetto magico che incontravano, girandosi spaventati verso di noi per l’improvviso buio che piombava a ogni galleria. Noi non eravamo da meno, controbattendo con salti e grida a ogni antilope che appariva in lontananza. A ognuno la sua magia.
Giunti alla stazione capolinea di Suswa, ancora più grande e ancora più desolata, ritroviamo i matatu che ci avevano lasciato. Si erano fatti di corsa il tragitto del treno per riprenderci e accompagnarci a destinazione. Sul lunghissimo e irrealistico programma della giornata era scritto che ci aspettava un’ora di viaggio prima di giungere al parco, dove avremmo pranzato. Sono state le tre ore e mezza più casuali che abbia mai vissuto. Abbracciato al piccolo Joseph (che ovviamente non si chiama così) alternavo un pisolino a un canto di gruppo su richiesta di un bambino di cui nessuno sa il nome ma che chiamavamo Mr. President. Tra le urla generali la carovana di cinque matatu si addentrava sempre più nella savana, lasciando alla musica ad altissimo volume, al polverone di terra e all’entusiasmo generale riempire il vuoto che ci circondava. E proprio quando la destinazione sembrava una terra promessa e il pranzo un miraggio, ecco comparire sul matatu un barile di uova sode e uno di bibite “tutti-i-gusti-più-uno”. Visibilio generale. Nella confusione acciuffo il cibo per me e Joseph. Mi tocca una Schweppes all’ananas. Non sapevo nemmeno esistesse. Ricaricati di energie continuiamo con balli e canti e arriviamo incolumi al parcheggio del parco, dove tutti insieme consumiamo il nostro pranzo, ovviamente a base di ugali, portato dagli educatori con mezzi e organizzazione degni dei migliori accampamenti scout.
Dopo il pranzo si corre alle piscine: per il ritardo abbiamo pochissimo tempo prima che chiudano. Vedo tra le piante a pochi metri, troppo vicina per essere vera, una giraffa che ci fissa curiosa. Un secondo dopo sono immerso in una piscina circondato da ragazzini che mi chiedono di lanciarli in aria per fare tuffi. Un dilemma etico mi dilania: faccio fare un tuffo anche al bambino grassottello che me lo sta chiedendo, o preservo l’integrità della mia spina dorsale? Il sorriso di un bambino vale più di un ortopedico, mi dico. Al richiamo dei guardiani ci sdraiamo su un prato a farci asciugare dal sole tramontante e con addosso l’odore sulfureo dell’acqua ci riavviamo verso i matatu.
L’atmosfera è magica. Il tramonto rosa ricopre un panorama sterminato in cui facoceri, giraffe, antilopi e zebre corrono davanti a noi. È la cornice perfetta per i saluti: stavamo infatti per tornare a Kivuli definitivamente, e non avremmo più rivisto i bambini. Ci avviamo verso le ragazze di Anita trattenendo le lacrime e guardando altrove, per abbracciarle un’ultima volta. Non incrociamo lo sguardo di nessuno nemmeno mentre salutiamo i bimbi di Ndugu Mdogo. Bernard, uno di loro, mi mette il broncio perché parto, poi però mi tira per un braccio all’ultimo momento possibile, per salutarmi anche lui. Sono piccoli momenti da tenere stretti nella memoria.
Sfiniti e malinconici stiamo in silenzio fino a quando arriviamo a Kivuli, stremati. È sera, la giornata si è chiusa e mi accorgo di aver lasciato sul primo matatu una sacca di vestiti sporchi che do per persi definitivamente. Li ritroverò tre giorni dopo, sul letto, lavati e profumati. A ognuno la sua magia.
Ettore Lamorgese, volontario di Amani.