Diffondere il bello nel mondo
di Anna Ghezzi
Viene voglia di accarezzarlo, sprofondarci le mani nel tappeto morbido di scaglie di legno che accoglie i passi di chi si lascia alle spalle il campo da basket di Kivuli e si inoltra tra i laboratori. Bisogna infilarsi nel passaggio che si apre sul muro. Ed è questione di attimi: le voci dei ragazzi e le pallonate lasciano il posto al ritmico rumore dello scalpello sulla jacaranda, i visi allegri dei bambini alle rughe e agli sguardi concentrati degli intagliatori seduti sugli sgabelli, intenti a tirar fuori da un ceppo un mercato di personaggi quasi vivi, da un pezzettino di legno un placido ippopotamo sdraiato.
La bottega di Amani nasce lì. Tra i container arrivati dall’Italia 20 anni fa grazie a una Partita del Cuore della nazionale cantanti e, una volta svuotati del materiale raccolto, diventati laboratori, lavoro e posto sicuro per un gruppo di rifugiati ruandesi e burundesi scappati dal genocidio del 1994 o dagli scontri del 1997/1998 nella regione dei Grandi Laghi. Ci sono gli intagliatori, ma non solo. Ci sono i quattro che fanno i batik con le loro mani, quello che confeziona i bigliettini col materiale che ha a disposizione e la carta e il cartoncino, poi le tre sarte.
Non tutto quel che si fa tra i laboratori, arriva in Italia. Nel settimo container si fa il biodiesel con l’olio esausto delle friggitrici del Java House e di uno dei più antichi e lussuosi hotel di Nairobi, che danno l’olio da smaltire – la materia prima – e si ricomprano il biodiesel con lo sconto. Infine nell’ottavo container lavorano alcune donne sieropositive, che non trovavano lavoro altrove, a causa dello stigma della malattia: niente prodotti da esportare, ma tè e un piatto caldo per chi si ferma al baretto.
Sono 35 gli artigiani di Kivuli, i rifugiati nel quartiere molti di più. I conflitti e le violenze di quegli anni hanno prodotto 3,5 milioni di rifugiati, 100mila solo in Kenya, in particolare a Nairobi. Rifugiati urbani, illegali fino a qualche anno fa. Nove su 10 restano fuori dai campi profughi a cercare di vivere con le proprie forze e non con le razioni Onu. Fino a qualche anno fa, raccontano i ragazzi, arrivavano all’alba, nascondendosi dalla polizia: non potevano lavorare per via dello status di rifugiato, ma fuori dal campo dovevano mantenersi.
Gli uomini intagliatori, le donne cuciono borse, grembiuli e coperte patchwork: ogni quadratino di un colore diverso, perfetto accanto all’altro. Un po’ come loro, diversi da tutti in un paese fatto da mille tribù.
Ogni tanto, racconta Arush, che coordina la cooperativa degli artigiani e fa i batik, qualcuno sparisce. È accaduto a uno dei più anziani, uno dei primi ad arrivare. Non tantissimo tempo fa. Non è più tornato. Gli amici dicono che se l’è portato via la polizia politica, anche se oggi il Rwanda non è più quello dei machete e dei milioni di morti sulle strade. “Vorremmo tornare a casa, ma la situazione è ancora difficile”, dicono tra un elefante di legno e una sedia intagliata. E la paura arriva anche lí, all’ombra di Kivuli.
La si combatte lavorando, scambiando esperienze. Quest’anno per esempio i ragazzi di Cherimus, a Nairobi per il progetto pilota di Darajart, la residenza artistica in memoria di Marco Colombaioni, hanno lavorato con gli intagliatori ruandesi di Kivuli per ridare a Perdaxius, nel Sulcis, la statua del patrono San Giacomo, andata distrutta durante una processione. Charles Nshimiyimana, rifugiato prima in Tanzania dall’età di 4 anni, poi in Kenya da quando di anni ne aveva 10, ha messo a disposizione la sua abilità nella lavorazione del legno e in collaborazione con Matteo Rubbi, Derek di Fabio ed Emiliana Sabiu ha realizzato la statua del santo pellegrino, che è stata portata in Italia e benedetta nel paese sardo lo scorso 28 luglio. Intreccio di immaginari, un ponte fra culture.
Gli intagliatori insegnano ai ragazzi di Kivuli interessati le tecniche per lavorare il legno. Vendono i loro prodotti ai mercati locali, in parte ad Amani e ai visitatori internazionali che passano da Kivuli, dove c’è anche uno spaccio. Con il ricavato della vendita pagano un piccolo affitto per gli spazi (4mila scellini al mese, 35 euro, un euro ciascuno) e ci vivono. In Italia, poi, Amani propone i loro prodotti ai banchetti, nella bottega. L’anno scorso questa attività ha fruttato 23mila euro, concorrendo a finanziare il 4% dei costi delle case di accoglienza. Scuola, cibo, sostegno, vestiti ai bambini, alle famiglie, cure mediche e molto altro. Ma l’obiettivo, spiegano dallo staff di Amani, è arrivare al 10%: “Aumentando i proventi netti – spiega Gloria – si generano risorse per fare ancora più acquisti dalle cooperative, creando un maggior guadagno per gli artigiani locali che vivono in condizioni di disagio e aumentando le possibilità di lavoro per altri piccoli artigiani”.
Ogni presepe, ogni ciotola, ogni bassorilievo, ogni singolo crocifisso in bella mostra sugli scaffali bianchi della bottega o disposto sul kikoy di un banchetto di volontari sono una duplice opportunità. Per i rifugiati sono vita e reddito.
Per chi lo riceve o lo compra è la possibilità di fare qualcosa di buono – sostenere gli artigiani e i progetti di Amani – e allo stesso tempo avere qualcosa di bello e unico, che senza questa rete che collega persone a Nord e a Sud del mondo, non sarebbero mai arrivate qui, nelle nostre case.
Ogni oggetto è dunque un “grazie” per un’azione solidale che aiuta Amani a mantenere i progetti in maniera sostenibile e gli artigiani a vivere. E ogni persona in più che lavora è un bimbo in meno sulla strada: ogni volta che c’è un genitore che ha un lavoro, può far da mangiare ed è presente, un bambino ha meno ragioni per scappare in strada.