Il senso di Peter per la neve
di Tommaso Perrone
La prima cosa che ha fatto non appena sveglio, è stata aprire la finestra della sua nuova camera e provare se quella cosa del fumo che esce dalla bocca quando fuori fa tanto freddo fosse vera. Fin troppo, tanto che la reazione d’istinto è stata chiudere in fretta e furia la finestra affacciata sulle Prealpi spruzzate di neve per tornare sotto le coperte. La prima mattina di Peter a Lecco è cominciata così.
Era il 20 novembre 2016 e in quel momento io mi trovavo a Marrakech, in Marocco, per seguire i lavori della conferenza sul clima. Il mondo era riunito per trovare una soluzione alla questione del riscaldamento globale. Un problema che, fosse stato per Peter, non aveva alcun senso vista la differenza di temperatura che ha percepito passando dalla torrida estate di Nairobi, in Kenya, all’inverno umido di Lecco.
Ho telefonato alla mia famiglia per avere la conferma che tutto fosse a posto per lo sbarco di Peter all’aeroporto di Malpensa poco prima di seguire una conferenza sul problema della desertificazione del Sahel, quella parte di Africa che va dall’oceano Atlantico al mar Rosso, proprio sopra il Kenya. Ero un po’ preoccupato di non essere presente e pronto a dare il mio contributo, ma soprattutto ero triste perché non avrei potuto vedere la sua faccia non appena messo piede in Italia. L’ultima volta l’avevo salutato al Kivuli Centre, sulla Kabiria road, alla fine del campo d’incontro estivo 2016.
Eppure, dall’altra parte del Mediterraneo nessuno ha messo in dubbio la propria disponibilità. Il primo di una serie incredibile di gesti di apertura, umanità e generosità che hanno caratterizzato il soggiorno italiano di Peter Kadech Ngati, 17 anni, per via di un’operazione piuttosto delicata volta a far tornare “in asse” la gamba destra. Secondo i racconti, infatti, Peter è caduto dal secondo piano di un edificio quando aveva 5 anni, riportando un trauma mai curato adeguatamente per via del periodo vissuto in strada e che, col tempo, si è trasformato in una deformità del ginocchio. Dal 2012 Peter è stato più volte operato dal dottor Antonio Melotto, chirurgo ortopedico di Lecco che è anche responsabile del progetto “Chirurgia della Disabilità” della Onlus World Friends, con la quale opera al Neema Hospital di Nairobi. Fino a che non si è arrivati a un punto di svolta: optare per un intervento risolutivo in Italia condotto da un’équipe specializzata, in una sala operatoria attrezzata.
Ad ospitare Peter nella settimana che ha preceduto l’intervento coordinato dal dottor Melotto presso l’ospedale Alessandro Manzoni di Lecco sono stati i miei genitori che hanno potuto dedicarsi a lui creando quel cuscinetto emotivo in grado di attutire il colpo dovuto a uno spaesamento che non è stato solo climatico, ma che ha coinvolto tutti i sensi. I colori, i profumi, i sapori. Ogni cosa dev’essere stata per lui una novità che ha sollevato domande, perplessità, incomprensioni. Le stesse, del resto, che ho provato io la prima volta che sono stato a Nairobi con Amani. E così, nonostante gli fosse stato ribadito che in Italia fa molto freddo, Peter non avrebbe resistito a lungo in maglietta e pantaloncini all’umidità, alla nebbia e alla pioggia che hanno bagnato incessantemente la prima settimana su “quel ramo del lago di Como che volge a Mezzogiorno” senza il calore di chi lo ha accolto. E per calore non intendo solo gli sforzi fatti dai volontari e dagli amici nel provare a pronunciare qualche parola in swahili (“karibu”, “habari”, “asante”), mi riferisco in particolare alla doppia felpa, al giaccone imbottito, al cappello di lana abbassato fino agli occhi, alla sciarpa fin sopra il naso e ai guanti che Peter indossava ogni volta che doveva fare due passi, anche in casa. Nonostante l’abbigliamento a prova di polo Nord, frutto dell’incredibile generosità dei locali – anche di coloro che non conoscevano la sua storia, nemmeno per via indiretta – che si sono mobilitati per fargli trovare un guardaroba semplice, ma indispensabile, Peter affermava ancora di avere molto freddo.
L’ingresso in ospedale è avvenuto una mattina di inizio dicembre, dopo aver affrontato la burocrazia tipica per chi non dispone di un passaporto italiano. Peter ha sistemato le sue cose e preso confidenza con un letto in grado di trasformarsi in sdraio pigiando un “semplice” bottone. Poi si è concentrato sul braccialetto che riportava i suoi dati anagrafici, compresa la data di nascita. “17 marzo?”, si interrogava fra sé e sé. Finché a un certo punto non è riuscito più a trattenere la domanda alla volontaria che in quel momento era al suo fianco: “Qui c’è un errore, questa non è la mia data di nascita! La mia nonna mi ha sempre detto che sono nato il 24 giugno”.
Un’affermazione che fa riflettere. Peter, quasi maggiorenne, si è trovato per la prima volta a dover “fare i conti” con la sua età. Per la prima volta si è trovato fra le mani un documento di identità che ha messo nero su bianco la prova del suo stare al mondo. Un dato che a noi sembra scontato, quasi innato, ma che per chi ha vissuto parte della propria infanzia ai margini della società, ha assunto finalmente valore e concretezza.
L’esito dell’operazione è stato positivo e al momento del suo ritorno in camera, Peter è apparso sereno. Stordito, ma sereno. O almeno così ha tentato di apparire agli occhi di chi lo stava aspettando con ansia: un ragazzo grande e forte, fortissimo.
Da quel momento, è partita la staffetta dei volontari che hanno voluto conoscere, salutare o rivedere Peter, degli amici e di coloro che hanno avuto contatti anche solo occasionali con Amani.
Un gruppo di persone fino a quel momento pressoché sconosciute tra loro è riuscita a far rete mobilitando una comunità per rispondere alle necessità, non solo economiche, che un’iniziativa di questo tipo ha fatto emergere. Per sostenerne le spese del viaggio, del passaporto, della degenza in ospedale (non dell’intervento che è stato realizzato gratuitamente dall’équipe di medici del Manzoni) e delle varie visite mediche sono stati raccolti fondi attraverso l’organizzazione di eventi, banchetti e lotterie, concerti e messe, scritti articoli sui giornali locali che hanno attivato numerose donazioni spontanee, fino ad aiuti quotidiani dove a essere donati sono stati tempo e competenze. C’è chi ha prenotato le visite di controllo, chi ha giocato, chi ha insegnato e chi ha organizzato gite trasformando il tempo libero in un momento indimenticabile.
La sua agenda era sempre piena, più che di un coordinatore, Peter avrebbe avuto bisogno di un manager per far fronte alle telefonate, alle mail e alle visite. I suoi amici e compagni di scuola di Nairobi hanno cercato di contattarlo attraverso Whatsapp, Facebook e canali improvvisati. Persino il clima è mutato incredibilmente. Per tutto il mese di permanenza nel centro di accoglienza che gli ha aperto le porte una volta dimesso dall’ospedale, il sole ha scaldato le giornate regalando temperature primaverili. Parlare di riscaldamento globale non era più un’assurdità, neanche per Peter che, spesso e volentieri, ha accolto in maglietta e pantaloncini chi gli ha fatto visita. Quasi a voler dire: “Hai visto che ho fatto bene a viaggiare leggero?”.
Al lago o in montagna, al cinema o allo stadio, Peter ha avuto un assaggio del territorio e delle prelibatezze italiane. Durante una giornata eccezionale che per qualche ora ha interrotto una primavera anticipata, è riuscito a toccare con mano perfino la neve, che in queste zone è sempre più rara e preziosa. Da “uomo tutto d’un pezzo” quale ha sempre cercato di apparire, Peter non si è scomposto neanche in questo caso, nonostante l’euforia che i suoi occhi non sono riusciti a nascondere nell’osservare per la prima volta un paesaggio completamente imbiancato.
«Peter, alla fine sei riuscito a goderti persino la neve!», gli ho detto nella speranza di farlo sciogliere. «È la prima volta che la vedi?», «No», mi ha risposto. «Anche sul monte Kenya c’è la neve».