La Casa di Anita compie 15 anni
di Anna Ghezzi
La Casa di Anita: this is our place
Guarda il videoNove anni dopo. Tornare ad Anita dopo così tanto tempo permette di vedere i piccoli o grandi passi fatti. Percepire che molto è cambiato, in meglio, e che nove anni sono serviti al progetto per crescere e camminare con più sicurezza.
I fili con il bucato steso ad asciugare sono sempre lì, così come il grande lavatoio, i fiori. Il parco giochi no, quello è finito dal lato opposto, rispetto al 2005: la giostrina su cui Ugo faceva volare le bimbe ora è appena dietro il “gazebo”, il grande cerchio dove si balla, si lavora, si sta insieme. I giochi hanno lasciato spazio all’orto, sempre più grande. E sullo sfondo restano le stalle.
Nosotua ha più o meno l’età di Anita’s Home, fondata 15 anni fa. Nosotua era piccina piccina nel 2005, non parlava, si aggrappava, cercava abbracci. Ora è un’adolescente sveglia, diffidente come è giusto che sia. Ma l’intelligenza si vede dallo sguardo, dal modo in cui scherza, anche con le più piccole. I capelli ordinati, i vestiti impeccabili. Ecco, i vestiti. Nove anni dopo ho visto bimbi e ragazzi ben vestiti, armadi in ordine, letti di casa, stanze vissute. Aria di casa.
Anche Cynthia allora era una bimba. L’ho ritrovata giovane donna. In attesa di potersi iscrivere a un corso universitario fa la volontaria ad Anita da qualche mese. Dà una mano alle due mamme e intanto impara. Sempre con quel sorriso dolce, quello sguardo sognante che non l’ha abbandonata, nonostante gli anni e il ritorno certo non facile allo slum dopo le scuole superiori. «Anita per me è casa, è stata la possibilità di crescere, di studiare. Torno volentieri, qui sto bene. E posso dare una mano, come altri hanno fatto con me». Ride, Cinthya, gioca. Accompagna le altre più piccole, insegna a fare chapati perfettamente tondi, perfettamente lisci, ha occhi e mani per stare dietro a tutto, per non lasciare che le ospiti si sentano sole, aiuta le ragazze ai bracieri appoggiati a terra per verificare che la cottura dei chapati sia fatta come si deve, senza mai smettere di cantare, di chiacchierare. E trovando un minuto per dare una mescolata al pentolone di fagioli che borbotta sul fuoco, nella cucina comune dove tutti insieme si preparano i pasti comunitari, quando ci sono ospiti.
Salire lungo la strada che porta ad Anita è un po’ come percorrere 15 anni di progetto. Di fronte al cancello dietro il quale le bambine trovano rifugio c’è un altro grande cortile, edifici che prima non esistevano. Il terreno l’avevamo comprato allora, ora si è trasformato in spazi, progettualità. Lì ci sono i laboratori in cui le GtoG con l’aiuto di Grace si inventano un futuro fatto di vestiti, moda, design, stoffe e professionalità. Un lavoro. Con lo stipendio c’è chi è riuscita a prendere una casetta, uscire dallo slum. Comprare una tv. Le ragazze di allora sono donne, con figli, combinare tutto non è semplice. Ma se si entra nel regno di Monica, fatto di cartamodelli appesi e vestiti da terminare, di ritagli di stoffa tenuti «perché magari riusciamo a farci qualcosa», si intravedono i colori di un futuro possibile per tante ragazze che ad Anita hanno trovato una speranza ma, alla fine, restano sole ad affrontare il mondo. E tutto questo scalda il cuore.
Dorkas io me la ricordo con una cuffia di lana, infradito, felpona e pantaloni larghi, qualche parola di italiano masticata bene e spirito critico. La rivedo in abitino e ballerine, capelli raccolti e borsetta mignon. Una signorina. Da due anni lavora come commessa in un negozio nello slum in cui vive ancora con la mamma malata. È lei che pensa alla famiglia, ha 23 anni ed è stata una delle prime ragazze di Anita. Aveva sette anni, nel 1999, ha vissuto in strada e poi attraverso il Rescue Dada, il centro di prima accoglienza, è arrivata nella casa rifugio sulle colline Ngong. Susan, la sorella, compirà 19 anni il 31 dicembre: vuole diventare chirurgo, senologa: ha dovuto lottare con tutte le sue forze, ma il 22 settembre si è seduta tra i banchi di quell’aula. «Quando mia mamma si è ammalata ho deciso che sarei diventata un dottore», racconta. Per farlo ha dovuto confrontarsi anche con un sistema scolastico in cui le ragazze valgono meno, figuriamoci se vengono da una comunità. Ad Anita lei è arrivata nel 1999, a tre anni, con le prime otto. Era già stata in strada, prima dei due anni. «Le mie cose le portavo nelle borse di plastica –racconta- eravamo io, Dorkas, Monica, Mary, Mwendo, Salome, Nzambu ed Ester». Ha lottato per avere un buon voto agli esami e potersi iscrivere a medicina. Poi ha chiesto ad Amani di aiutarla con una borsa di studio. Per l’università le servivano due uniformi, vestiti, scarpe e zoccoli da medico. I libri. Una spesa ragionevole per noi, enorme laggiù. Ce l’ha fatta. Anche se casa sua, nonostante la corrente sia finalmente arrivata nel quartiere, la sera si accendono ancora le candele.