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Porta aperta, porta chiusa.
Sono passati quindici anni da quando, il 28 giugno 2008, venne inaugurata a Lampedusa la Porta d’Europa dell’artista Mimmo Paladino. Il monumento era stato pensato, voluto e realizzato da Amani insieme ad alcuni amici e associazioni. Un caso, crediamo, tuttora unico nel mondo delle organizzazioni non governative.
Per commentare la creazione della Porta di Lampedusa padre Kizito Sesana scrisse per il nostro giornale un articolo le cui parole ancora risuonano nelle nostre coscienze. Nel 2018 celebrammo il decennale della Porta riproducendolo e ancora vogliamo tornare a farlo oggi, quando altri cinque anni sono trascorsi.
Chiunque lo leggerà si renderà conto dell’attualità di quel testo. Segno della sua forza, ma anche del perdurare della tragedia che funesta le acque del Mediterraneo. Il naufragio di Cutro, sulla costa calabrese, il 26 febbraio di quest’anno, 94 morti; e ancor più recentemente, il 14 giugno, quello di Pylos in Grecia, costato un numero imprecisato di vittime ma sicuramente nell’ordine delle molte centinaia, tra le quali moltissimi bambini: queste catastrofi ci dicono che la strage dei migranti non è finita, mentre la nostra assuefazione, l’indifferenza, si sono molto accresciute.
La Porta di Lampedusa: un monumento ai vivi
di Renato Kizito Sesana, 28/06/2008
La porta di Lampedusa si apre su un mare dove si stima che negli ultimi dieci anni siano perite diecimila persone tentando una difficile traversata. È, in un certo senso, un’opera incompiuta. Può restare come un segno di pietà e un luogo di raccoglimento, o diventare un freddo monumento funebre come tanti, o allargarsi e diventare il simbolo di un’Europa che si apre verso l’Africa, verso l’accoglienza e una solidarietà nuova.
Starà a noi, negli anni a venire, costruire il suo significato.
Guardando questa porta, adesso, capiamo che la globalizzazione non è un’astrazione, non sono solo merci a basso prezzo che invadono il nostro mercato, non sarà, anche se noi lo vorremmo, una nostra nuova modalità per dominare il mondo. Sono persone che finalmente accedono alla consapevolezza di essere parte di un unico mondo, e vogliono essere responsabili della loro vita, una vita che sognano possa diventare più umana, e per far questo sono disposti a venire in Europa a fare i lavori più umili, ad accudire i nostri malati, a cucinare il nostro cibo, e a pulire le nostre città.
E capiamo che abbiamo bisogno di una rivoluzione nel modo in cui guardiamo alle cose. Il nostro mondo europeo è ormai un mondo piccolo, in tutti i sensi, e c’è al di là di questa porta un mondo più grande che ci chiede di partecipare e di condividere. Non possiamo più pensare al nostro piccolo mondo come al centro dell’universo, ma vediamo che c’è al di là dei nostri confini, che perdono sempre più di significato, un nuovo grande mondo ribollente di vita. Chiudere questa porta vorrebbe dire chiudersi alla storia e al futuro.
Di fronte ai drammi crescenti della fame e del disastro ecologico, l’Europa viene presa dal panico e risponde alla crescente richiesta di solidarietà con promesse che non mantiene mai, come vediamo regolarmente durante gli incontri del G8, ritornando ai meschini interessi nazionali, e alzando barriere sempre più alte.
Così, per un momento — e speriamo che sia un momento breve — l’Europa crede a chi percepisce e rappresenta lo straniero come una minaccia, come colui che vuole derubarci della “nostra roba” e della “nostra identità”, invece che come “colui senza il quale vivere non è più vivere”.
Accettando l’altro non gli facciamo un favore, aiutiamo noi stessi, evitiamo di diventare maschere, evitiamo di immedesimarci sempre più in un’identità immaginata che dovrebbe proteggerci dalle nostre insicurezze interiori, ma che è di fatto un’identità statica e sterile che ci impedisce di crescere come persone umane e come società. È una tentazione che coinvolge tutti, anche una Chiesa che talvolta sembra preferire il porto sicuro delle antiche abitudini piuttosto che l’avventura del mare aperto.
Ma i poveri si rifiutano di vivere in una miseria indegna della persona umana, vittime di una sfruttamento interno ed esterno, di guerre che non capiscono e non vogliono, e vengono a cercare da noi il sogno della “european way of life” che abbiamo alimentato con la nostra propaganda, stupidamente sicuri che il nostro modello di sviluppo fosse l’unico possibile. Così continuano a stimolarci per allargare i nostri orizzonti.
C’è chi in Europa crede di poter fermare con le leggi questa ondata di vita che viene ad abbracciarci. Fortunatamente per tutti noi, sono degli illusi. La legge non cambia la storia, anzi, quasi sempre la legge è costretta a seguirla, soprattutto quando si tratta di eventi epocali come le migrazioni oggi in atto.
Così chi in Europa tiene gli occhi aperti incomincia a capire che la solidarietà o diventa globale o non ha più senso. Gli egoismi di classe e di nazione sono il linguaggio del passato. Quando ero bambino la scuola e un certo mondo di adulti cercavano di trasmetterci in tante forme la convinzione che gli austriaci erano il nemico storico per eccellenza. Oggi questo fa ridere, o fa pena. È bastata una generazione per far dimenticare pregiudizi che potevano sembrare eterni. Oggi i nostri ragazzi si sentono sempre di più cittadini di un unico mondo e capiscono istintivamente — a meno che siano succubi di martellanti propagande — che la convivenza civile può essere solo fondata su una solidarietà globale, altrimenti è solo un egoismo mascherato.
Sono fiero della mia cultura e della mia tradizione. Ma è proprio centrale alla grande cultura in cui sono nato il riconoscere in ogni persona prima di tutto la comune umanità, fonte di dignità e diritti, e solo successivamente vedere le differenze. E accettarle come differenze che ci complementano, anzi, che mi creano e che mi danno vita, perché senza queste differenze non potrei essere me stesso.
Se facciamo nostra questa rivoluzione mentale, riguardando questa porta non la vediamo più come un monumento ai morti, ma come un grande segno di speranza e di apertura per i vivi. Ci accorgiamo che non facciamo semplicemente memoria di quei poveri corpi in fondo al mare, li riconosciamo come persone che venivano a noi desiderosi di condividere la nostra comune umanità. Essi, che hanno già attraversato un’altra porta, quella che si apre sull’incontro con l’Infinito, con colui che è davvero e definitivamente l’Altro, avevano capito ciò che noi fatichiamo ad intravedere. Hanno aperto questa porta per noi.
La porta di Lampedusa diventa allora un invito a guardare lontano, e a guardare con speranza. Cominciamo a capire che non siamo alla fine della nostra civiltà. Siamo agli inizi di una nuova era, in cui vivere in solidarietà globale è la nuova dimensione.
(in alto: Porta d’Europa di Mimmo Paladino, foto di Sandro Cerino)